CATANIA – Dopo un incendio su un terreno non si può costruire: questo è, in sintesi, l’idea che sta dietro il catasto incendi, istituito da una legge nazionale del 2000 e di cui ogni comune deve dotarsi. L’idea è impedire la speculazione edilizia e qualsiasi altro tipo di interesse che potrebbe spingere qualcuno a incendiare un bosco o un’area di campagna. Ma in alcuni casi, si verifica il paradosso per cui chi incendia ha proprio l’interesse a cristallizzare tutto, sfruttando le pieghe della legge.
Perché si incendia in Sicilia
Mentre la stagione antincendio 2022 è in pieno svolgimento, per capire quali siano le dinamiche degli incendi dolosi in Sicilia è utile leggere il rapporto della Commissione antimafia dell’Ars. Nell’estate del 2021, 8133 incendi hanno devastato il territorio siciliano, con una media di 135 roghi al giorno che hanno interessato, complessivamente, 78 mila ettari, o il 3,05 della superficie totale dell’isola.
Se le condizioni in cui nascono gli incendi ormai sono note (alte temperature, venti di scirocco, siccità prolungata), meno chiare sono le cause, i motivi che muovono chi decide di incendiare. Una delle conclusioni a cui giunge il rapporto della Commissione è che ciascun territorio ha le sue cause specifiche, tra le quali, molto spesso, c’è quello di appropriarsi o danneggiare i terreni da pascolo.
Le lotte per i pascoli
Gli allevatori che ricevono in concessione un lotto per pascolare il bestiame possono fare domanda per ricevere dei fondi comunitari, che possono essere concessi a superficie o a capo di bestiame. Come si legge nel rapporto della Commissione antimafia, le somme erogate sono sull’ordine di 800 euro per ogni capo bovino, e 600 per un vitello. In questo modo i terreni diventano una fonte di possibili introiti per gli allevatori.
A raccontare cosa succede a questo punto è Giovanni Litrico, dirigente provinciale per il territorio di Catania del servizio 11 del Dipartimento regionale dello sviluppo rurale, che in una seduta della Commissione racconta: “Una volta presentata una istanza, può succedere che gli allevatori entrano in competizione per lo stesso lotto di terreno. Ho potuto verificare che a monte c’erano delle liti tra gli allevatori i quali tendevano a bruciare il lotto del collega vicino che aveva prodotto l’istanza e aveva ottenuto il pascolo”.
In altri casi, lo scopo di chi brucia è, paradossalmente, lasciare tutto com’è. Questo succede soprattutto in zone, come quella a nord dell’Etna, in cui gli incendi si ripetono sempre sugli stessi terreni. A raccontare alla Commissione è Carlo Caputo, presidente dell’ente Parco dell’Etna: “Molte aziende avanzano istanze di miglioramento fondiario, anche su particelle che erano ex coltivi. Ma non possono più impiantare frutteti o qualunque attività agricola proprio perché queste terre sono state attraversate dal fuoco. Non si tratta – dice poi Caputo – di aree dove ci sono delle attività produttive, e per questo si ipotizza che possano essere pastori considerato che, spesso, su quelle aree si osserva l’attraversamento di bestiame”.
È un’ipotesi, come ribadito più volte nel corso del rapporto: alcuni allevatori brucerebbero tutto per impedire lo sviluppo dei terreni. Ma perché? È un effetto collaterale della legge sul catasto degli incendi.
Il catasto
Secondo la legge nazionale 335/2000, su un terreno devastato da un incendio intervengono dei divieti di diversa natura, da quello di edificare a quello di cambiare la destinazione d’uso. Perché questi divieti possano entrare in azione, però, occorre che ogni comune faccia un censimento aggiornato delle aree incendiate: il catasto, appunto.
Cosa succede, quindi, se un’area è incendiata e censita nel catasto? Non si può edificare nulla, né coltivare. Secondo l’ipotesi della Commissione, lo scopo in alcune zone della Sicilia sarebbe esattamente questo: bruciare tutto per continuare ad avere, ancora per qualche anno, terreni adibiti a pascolo.