PALERMO – Si spara, si uccide e si fanno i soldi con la droga. Nessuna sorpresa dal blitz che ieri ha coinvolto ventisei persone a Brancaccio. Neppure il fatto che la mafia è presente, seppure azzoppata ogni giorno di più dagli arresti.
L’omicidio Romano
L’inchiesta della Procura di Palermo fotografa il business della droga fino al 2022. Da allora sono successe tante cose. Due in particolare. Una ha inciso nelle dinamiche criminali, l’altra è un dato di cronaca che va tenuto in considerazione in prospettiva futura.
La prima: il 26 febbraio scorso è stato ammazzato Giancarlo Romano. Il piombo ha fermato l’ascesa del nuovo boss ucciso nel contesto di un regolamento di conti per la gestione delle scommesse clandestine.
Il triumvirato
La seconda: una decina di giorni fa è stato scarcerato per fine pena un capomafia di peso, Nino Sacco. Non sarà internato in una casa lavoro dove rischiava di rimanere a lungo. Niente “ergastolo bianco”.
Una volta finiti di scontare 13 anni e mezzo di carcere gli era stata applicata la libertà vigilata e la permanenza in casa lavoro.
Il Tribunale di sorveglianza ha accolto il ricorso della difesa. Ci sono volte in cui i capimafia restano al 41 bis, il regime del carcere duro, nonostante abbiano finito di scontare la pena. Si va di proroga in proroga.
Non è stato il caso di Sacco, uno dei triumviri che regnavano a Brancaccio. Al suo fianco c’erano Cesare Lupo e Giuseppe Faraone. Un gradino più in alto il capo mandamento Giuseppe Arduino. Furono tutti arrestati nel 2011.
Lupo è ancora detenuto. Ci vorrà parecchio tempo prima che finisca di scontare un cumulo di 28 anni. Faraone è libero per fine pena da un paio di anni. Arduino è stato arrestato di nuovo poche settimane fa.
Il figlio del boss
Nel blitz di ieri è finito in carcere il figlio, Alessandro Giuseppe, considerato la longa manus mafiosa sui traffici di droga assieme ad Alessio Caruso, che se ne andava in giro al fianco di Romano.
Arrestato nel 2009, Sacco fu assolto e scarcerato nel 2011, salvo poi tornare in cella pochi mesi dopo. Una parentesi di libertà in cui, però, fece la voce grossa. Secondo il collaboratore di giustizia Antonino Zarcone, il triumvirato aveva ricevuto il mandato direttamente dai fratelli Graviano.
Nel 2020 Sacco fu mandato agli arresti domiciliari. Erano i giorni del Covid e della paura che in carcere non si potesse garantire l’isolamento dal virus ai soggetti fragili di salute.
Fu il primo della lista dei detenuti a rientrare in cella in virtù del nuovo decreto dell’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, travolto dalla polemica sulle scarcerazioni.
Sacco è libero, a nulla sono approdate le indagini sugli spifferi di una fonte confidenziale sul delitto di Francesco Nangano, assassinato nel 2013. Un delitto ancora irrisolto. I servizi segreti un anno e mezzo prima avrebbero raccolto la notizia che Nangano era in rotta con i vertici del clan. Voci, sospetti, nessuna conferma.
Nel frattempo a Brancaccio si spara, si uccide e si fanno i soldi con la droga. Il carcere dovrebbe servire per rieducare i detenuti. Tutti hanno diritto ad una seconda occasione. Troppo spesso però si resta mafiosi e la mafia azzoppata ha bisogno di nuovi-vecchi punti di riferimento.