PALERMO – Il tempo si è fermato alla missione ‘Speranza e carità’, nella cittadella del povero di via Decollati, su uno sputo d’acqua che noi palermitani ci ostiniamo a chiamare fiume Oreto. Il fiume vero è fatto di persone, di migranti che entrano ed escono dal portone verde. Il guardiano accoglie sospettoso: “Cerchi Biagio? Non c’è, è in Africa. Forse torna stasera”.
Allora, quando Biagio Conte era Biagio Conte e il detenuto Totò Cuffaro non indossava i rammendi del carcere, ma un impeccabile completo presidenziale, accadde un evento forte. Erano giorni difficili per il missionario laico che aveva occupato e ottenuto un terreno in via Decollati, per aprire un nuovo ricovero. Palermo somigliava a una spugna. Buttava fuori più miserabili di quanti potesse sopportarne.
Il presidente Cuffaro compì un atto di generosità. Si presentò in visita nella cittadella sull’Oreto per elargire una donazione. Biagio si buttò in ginocchio, appena lo vide. Si aggrappò alla giacca del governatore e cominciò a piangere, gridando: “Presidente, ci sono i poveri, i poveri!”, terminando l’urlo in un singhiozzo. Totò – così lo chiamavamo, con la confidenza dei sudditi – placò con una mano i flash dei fotografi. Tirò su quell’uomo in lacrime. E lo baciò.
Anni dopo, i percorsi del destino presentano una scena inversa. Stavolta, chissà, sarà Salvatore Cuffaro a bussare al portone, ultimo fra gli ultimi, perché nessuno è più ultimo di chi, per sua colpa, ha perso la libertà. Comunque si giudichi, la domanda di affidamento dell’ex re di Sicilia – che ha chiesto di essere assegnato ai volontari di Biagio Conte per scontare la pena che gli rimane – è una parabola perfetta del potere, con un sottofondo educativo. Chiunque sia oggi Cuffaro, se un cinico che tenta di risparmiarsi la galera con una simulazione, se un’anima sinceramente ravveduta e pronta a mettersi a disposizione, siamo spettatori di una vicenda che è molto più politica e morale di tante altre acclamate dal popolo. Qui un ex potente si appresta davvero a rendere un servizio per il bene comune.
Come lo accoglieranno? Biagio – insistono – non c’è. Don Pino, il suo secondo, il braccio operativo che ha assistito per decenni il fraticello laico, taglia corto: “Come tutti gli altri. Qui c’è l’urgenza di agire, di trasformare la permanenza in utilità. Ancora è presto per parlare, aspettiamo la decisione del tribunale. Certo, nessuno viene qua per leggere il giornale, per oziare. Dai detenuti esigiamo collaborazione piena”. Il tempo si è come fermato. In via Archirafi, uno dei tre punti di accoglienza con via Decollati e la casa femminile di via Garibaldi, un anziano prega davanti alla statua di San Francesco, ritratto mentre accarezza un lupo, presumibilmente nativo di Gubbio. Sulla ringhiera che costeggia l’edificio ci sono panni stesi ad asciugare sotto un cielo di spiccioli d’estate. Don Pino risponde ai cronisti: “Ricordiamo che con Cuffaro c’è stato un bel rapporto. Lui fu uno dei primi a darci una mano, a sostenere la nostra battaglia, a raggiungerci in via Decollati. E’ medico, no? I medici sono benedetti. Ecco, potrebbe aiutarci come medico”.
Intorno a don Pino si accalcano volti che hanno conosciuto la via crucis di un recupero non semplice: “Io ero cuoco – racconta un ragazzo non più giovanissimo -. Perciò mi sono impegnato come cuoco. Ognuno dà quello che può dare”. Il sacerdote è stanco di commentare ciò che non è successo: “Aspettiamo dicembre, aspettiamo il giudice. Il dibattito mi sembra prematuro. Accoglieremo Cuffaro come è stato con tutti, senza compiere disparità. Vedremo. Ora, scusate devo visitare dei malati”.
Alle sei di sera, nella casa femminile di via Garibaldi, si celebra la Messa. Nemmeno lì hanno visto Biagio. Una ragazza di colore, con un velo sulla testa, socchiude e sussurra: “Non c’è”. Una donna esce con due bambini. I volontari accolgono ex vittime della strada, ragazze che vogliono cambiare vita, abbandonando i viali del parco reale, raduno delle nigeriane e dei loro papponi.
Qualche ora dopo, ecco Biagio, ecco il suo saio col bastone. Il tempo si è fermato nei suoi occhi azzurri. Prega. Accarezza i bambini. In breve, commenta: “Non so praticamente nulla, sono stato in Africa. Cuffaro da noi? Un segno? Se Dio vorrà… Questa è la dimora dei poveri, è necessario diventare umili, servire. C’è un cammino importante da affrontare. Avevo quasi scelto di restare in Africa, viviamo con insensibilità in Sicilia e a Palermo. La politica dovrebbe riscoprire la solidarietà, non contrastare e combattere per nulla. Non so che dire, ci penseremo su se si verificherà la circostanza. Lo ripeto: siamo nelle mani di Dio, se Dio vorrà. Noi accogliamo il prossimo”. E si allontana appoggiato al bastone.
Sono tante le storie che ritornano dai taccuini passati sul prossimo che Biagio Conte ha protetto. Il barbone che morì, lasciando su un pezzo di carta una piccola poesia. Vicè che chiuse gli occhi per gli stenti sotto i colonnati delle poste e fino allo stremo rifiutò il conforto di un’ambulanza. Poi, quando stava male male si decise finalmente a posare i capelli sporchi sulla lettiga e spirò. Un diversamente Vicè, inteso ‘vogghifumari’, perché voleva fumare una sigaretta infinita composta di migliaia di sigarette, fu impallinato con un fucile a piombini, come si spara ai cani.
Ombre, panni sdruciti che salgono alla mente, nel tempo che si è fermato tra lo sputo d’acqua dell’Oreto, la stazione e la via Lincoln. Forse, il prossimo a bussare al grande portone verde sarà un uomo che ha sbagliato. Come tutti coloro che sbagliano, bisognoso di speranza, assetato carità.