PALERMO – Le ultime tracce concrete dell’esistenza in vita di Matteo Messina Denaro sono di inizio agosto scorso. “Esistenza in vita”, non di presenza. La differenza è sostanziale. Perché si può anche esistere senza esserci. E lui, il latitante dei latitanti, non c’è. E se c’è non si vede. Praticamente, un fantasma.
Ad ogni blitz che lo lambisce la domanda è inevitabile: dove si nasconde Messina Denaro, in fuga da più di un ventennio? Gli arresti eseguiti ieri dai carabinieri di Trapani e del Ros per la maxi rapina che serviva a finanziare anche la latitanza del padrino ha riportato Bagheria al centro dell’attenzione. Il passato ritorna. Tra Aspra e Bagheria nel 2000 fu ritrovato il covo del boss. O meglio, il nido d’amore che condivideva con una donna trentenne. Il circondario bagherese è solo una bandierina nella mappa – vera, presunta o fantastica – dei luoghi di una fuga talmente lunga da essere sfociata nella leggenda. Hanno arrestato amici, parenti, vivandieri e semplici conoscenti del capomafia. Ogni volta qualcuno ci dice che il cerchio si stringe, ma lui resta inafferrabile.
In una mattina della recente caldissima estate nella masseria di contrada Lippone, territorio di Castelvetrano, si è registrato l’ultimo passaggio della corrispondenza di Messina Denaro gestita da Vito Gondola, anziano capomafia di Mazara del Vallo. Perché il latitante scrive, o fa scrivere, le sue direttive, le spedisce, ma non ci capisce come recapiti la posta. Il procuratore aggiunto Teresa Principato, che ne coordina la caccia, parla di indagini ancora in corso sulle protezioni ad alto livello. La Principato è l’aggiunto che ammise la frustrazione per una pista bruciata. La Procura di Palermo nel 2012 decise di arrestare il presunto capomafia di Sambuca di Sicilia Leo Sutera, ritenuto molto vicino a capomafia trapanese. Si aprì uno scontro duro in Procura fra la Principato, l’allora procuratore Francesco Messineo e l’aggiunto Vittorio Tersi che coordinò il blitz agrigentino. Questi ultimi due difesero al scelta di arrestare Sutera.
Qualcuno bene informato sostiene che il latitante potrebbe non essere in Italia. Che si interessa appena alle faccende siciliane, impegnato com’è a proteggere se stesso. Se così fosse c’è da chiedersi come faccia a mettersi in contatto con la “carrozza”, come la chiamavano Gondola e compagni, e cioè con l’uomo misterioso che costituisce l’anello terminale della catena di trasmissione.
Nelle centinaia di ore di intercettazioni captate, emergono passaggi appena sussurrati in cui Messina Denaro smette di essere il convitato di pietra. “…Matteo che si interessa…è fuori…”, si è fatto scappare Michele Gucciardi, sessantaduenne capomafia di Salemi, parlando con Gondola che, dal canto suo, giustificava così il comportamento del latitante: “… non si fa vedere mai perché sta troppo … troppo guardingo”. Messina Denaro, come tutti i comuni mortali, ha bisogno di soldi. Delle due l’una: o è riuscito a costruirsi una vita parallela talmente anonima da non destare sospetti oppure qualcuno deve passargli i soldi per starsene rintanato chissà dove.
Le indagini del pool investigativo creato ad hoc per dargli la caccia – ne fanno parte poliziotti delle Squadre mobili di Palermo e Trapani, agenti del Servizio centrale operativo e carabinieri del Ros – di recente si sono concentrati sulla Svizzera, crocevia di fiumi di denaro. A Locarno è nato Domenico Scimonelli, uno degli arrestati del blitz d’estate, che ufficialmente faceva il titolare di un supermercato Despar.
Mettendo da parte le mille segnalazioni suggerite dalla voglia di mettersi in tasca la taglia che i servizi segreti hanno messo sul capo del latitante, Messina Denaro è uno che avrebbe viaggiato parecchio. Nel 2003 sarebbe andato a Caracas passando da Amsterdam, mentre altre volte sarebbe transitato da Parigi e Bogotà. La sua passione per i viaggi è entrata a far parte di parecchi atti giudiziari. Si è parlato di Austria, Svizzera, Grecia, Spagna e Tunisia. L’ultimo giallo, in ordine cronologico, sull’introvabile Messina Denaro passò dalle confessioni di un detenuto. Raccontò di avere diviso la cella con un sudamericano che gli avrebbe confidato di essere in contatto con Messina Denaro. Sapeva, ad esempio, che il latitante nel ’95 si trovava in Guatemala, dove si sarebbe sottoposto ad un’operazione per cambiare il tono della voce e le impronte digitali.
È in tera siciliana che, gira e rigira, il fantasma di Messina Denaro si fa vivo. Alcuni episodi hanno del clamoroso. In contrada Zangara, a Castelvetrano, nel 2010, Calogero Giambalva – un consigliere comunale pure lui in manette raccontava il suo segreto a un amico – disse di avere incontrato e abbracciato Messina Denaro mentre andava a caccia. Millantava?
Ancora più di recente, siamo nel 2013, a Benito Morsicato, pentito di Bagheria che ha raccontato i segreti della rapina, arrivò un’informazione top secret. Il colpo fu rinviato perché la base operativa della banda, una villa a Tre Fontane, era occupata da un inquilino speciale: il latitante. Un anno prima, quando si era sparsa la voce fasulla che Giuseppe Grigoli, il braccio economico di Matteo Messina Denaro, l’uomo del business della grande distribuzione targata Cosa nostra, aveva iniziato a parlare con i magistrati, Vincenzo Panicola aveva incaricato la moglie Patrizia, sorella del latitante, di capire quale contromisura adottare. In ballo, forse, c’era addirittura l’ipotesi estrema di eliminare Grigoli. Poi, arrivò il diktat di Matteo: “Non toccatelo, perché se parla può fare danno”. Dalle parole di Patrizia sembrava che la donna gli avesse parlato, chissà con quale diavoleria tecnologica o addirittura a quattrocchi.
Fra millanterie e spunti investigativi seri non resta che riportare le frasi che il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, ha pronunciato pochi giorni fa in Commissione antimafia: “Il ruolo di capo assoluto non sembra essere rivestito in questo momento da Matteo Messina Denaro. Ci si trova di fronte a un latitante sui generis che controlla il suo territorio che non per questo sta permanentemente sul suo territorio; è un latitante che continua a utilizzare i pizzini per lo scambio delle informazioni ma non escludiamo utilizzi sistemi di comunicazione più tecnologici e molto meno controllabili. È un latitante mobile sul territorio nazionale e anche al di fuori. Le attività per la sua cattura sono difficili, estremamente complesse”. Quanto alle coperture di cui godrebbe “nascono da ipotesi investigative che fanno ritenere che 23 anni di latitanza è difficile reggerli senza un qualche appoggio che non deve essere per forza di altissimo livello e che contestualmente sulla base di elementi su cui si sta lavorando ci fanno ritenere che non siano neanche di basso livello: professionisti, imprenditori, persone collegate a determinati ambienti, non esclusa la Massoneria”.