Mio padre mi ha sempre insegnato che se vuoi essere un bravo giornalista la regola più importante è farsi capire. Francesco Foresta mi ha insegnato che se vuoi essere un eccellente giornalista, un fuori classe, la regola più importante è sintetizzare. Trovare un titolo alla storia che vuoi scrivere ancora prima di averla raccontata ai tuoi colleghi, al tuo capo. Un giorno di luglio bussai alla porta di un’emittente televisiva nazionale per un colloquio. Ero volata a Roma senza dirlo a nessuno, neppure a lui. Io, giovane ragazza di Palermo alle prime armi. Mentre salivo di corsa le scale che conducevano alla stanza dove avrei incontrato il mio potenziale futuro capo riuscivo ad immaginare solo di entrare e trovare Francesco chino sul suo quadernone a scrivere qualche appunto con quella grafia un po’ stampatello un po’ corsivo. Tempo di attenzione che mi avrebbe concesso: trenta secondi. Il tempo variava in base alla situazione. Se lo trovavo allegro e rilassato, piedi sulla scrivania e sigaro in bocca, il tempo a mia disposizione poteva arrivare addirittura ad un minuto. Metà del quale lo avrebbe usato lui per sfottermi. Per come ero vestita, perché avevo fatto tardi, perché mi vedeva sovra pensiero o anche solo perché entravo nella sua stanza sfoderando sorrisi ammalianti che speravo mi avrebbero concesso qualche secondo in più. E subito: “Che hai da ridere?”. Diversamente andava quando lo trovavo mediamente annoiato: trenta secondi. E così a scendere. Nervoso e indaffarato: quindici secondi. Giù di morale: cinque secondi. Arrabbiato: meglio non entrare.Nel minuto e mezzo che ci misi a percorrere i corridoi dell’ufficio romano pensavo solo a questo: al tempo che avrei avuto a disposizione se avessi avuto davanti lui e al sorriso che lo avrebbe addolcito. Il colloquio durò circa tre minuti. Io dissi tutto in un minuto e mezzo. Un mese dopo ero in redazione ed entrai nella sua stanza: lo trovai stanco. Vederlo così per me era un’esperienza del tutto nuova. Cercavo il suo sorriso beffardo ma non lo trovavo. La sintesi, pensai. E fuori il rospo: “Mi hanno offerto un lavoro”. A lui ci vollero un paio di secondi per dire quello che pensava: dovevo accettare immediatamente. Il secondo dopo mi stava prendendo in giro, quello ancora dopo mi diceva “amunì, ora mettiti a scrivere”. Io avevo gli occhi lucidi. Francesco era così: aveva la capacità di sdrammatizzare tutto. Non ignorava il dolore o la nostalgia. Le sfotteva. Allo stesso modo ha sfottuto la morte. Come faceva con me, ogni mattina mentre saliva le scale: mi guardava, io sfoderavo il mio sorriso, e lui mi faceva un gestaccio.