PALERMO – In assessorato ne sono arrivate circa 300. Le lettere portano la firma dei sindaci di Comuni siciliani. Tutte quante chiedono, in pratica, di non consentire che la legge sulle Province finisca per impedire le stabilizzazioni dei precari degli enti locali. Già, perché uno degli effetti collaterali di questo caos chiamato riforma è anche una guerra tra lavoratori.
I sindaci insomma sono preoccupati. Ed è uno degli effetti del capriccio del governatore: quello che ha tenuto bloccate e commissariare le ex Province per tre anni. Prima a causa di un annuncio al quale è seguito il nulla fuorché il tam tam mediatico, poi a causa di una serie di disegni di legge e assessori mutati vertiginosamente, quindi per colpa di una legge scritta male (con la complicità dell’Ars) e pesantemente impugnata dal governo Renzi, infine per la volontà di mantenere in piedi una norma, quella relativa al sindaco metropolitano, diversa dal resto d’Italia, ma utile a tagliare fuori alcuni “nemici politici” come Leoluca Orlando ed Enzo Bianco.
E adesso la Sicilia è nel limbo. Di nuovo. Con una impugnativa che continua a incombere sulla riforma. E con circa 25 mila lavoratori (tra i seimila delle ex Province e il resto, precari dei Comuni) terrorizzati dal futuro. Proprio per questo, circa 300 sindaci hanno scritto all’assessore alla Funzione pubblica Luisa Lantieri. Nelle note, tornano spesso alcuni passaggi. “La legge di riforma delle province – scrivono i sindaci – promuove una destabilizzazione dei rapporti di lavoro in essere, anziché consolidare gli stessi”. In pratica, i sindaci paventano che possano avviarsi i meccanismi previsti dalla norma nazionale sulla mobilità: una buona parte dei dipendenti delle ex Province, col variare delle funzioni attribuite al nuovo ente, il Libero Consorzio, dovrebbe infatti essere trasferito a Regione e Comuni. Ma a quel punto, si finirebbe per cancellare la priorità di precari che da anni e forse da decenni lavorano nello stesso Comune e che aspirano all’assunzione, prevista dalle norme nazionali e regionali (anche l’ultima proroga approvata da Roma e ratificata da Sala d’Ercole, infatti, è legata alla stabilizzazione degli stessi lavoratori). E i sindaci puntano il dito proprio contro “la manifestata e chiara volontà di procedere con decorrenza 1 gennaio 2017 all’estromissione del personale a tempo determinato dai rispettivi posti di lavoro per fare spazio al personale che risulta in esubero presso le dismesse province”.
Una guerra tra precari e tra lavoratori, dicevamo. Combattuta in un caos che è solo siciliano. Perché dalla Calabria in su, invece, l’abolizione delle Province e la gestione del personale – tranne rarissimi casi – non è stata affatto traumatica. Anche perché le Regioni hanno potuto fare affidamento al portale messo a disposizione dal Ministero della Funzione pubblica guidato da Marianna Madia. La Sicilia, invece, è rimasta fuori anche da quello, a causa dei ritardi nell’approvazione della riforma. E adesso?
Intanto ieri sono piovute le diffide all’assessorato degli altri lavoratori, i seimila (più seicento precari) delle ex Province, appunto, spaventati anche in seguito all’ultima promessa di impugnativa giunta da Roma. Una impugnativa, del resto, facilmente prevedibile. Il governo e l’Ars, infatti, hanno deciso, in occasione della correzione in corsa della riforma approvata in estate e bocciata da Palazzo Chigi, di imboccare una via di mezzo: non hanno aderito del tutto ai rilievi che hanno portato all’impugnativa di Roma intestardendosi sulla norma riguardante il sindaco metropolitano, ma non hanno nemmeno deciso di andare allo scontro dinanzi la Consulta. Così, ecco l’esito più logico: la lettera del sottosegretario Bressa che, di fatto, conferma l’impugnativa nell’unico punto al quale la Regione non ha voluto adeguarsi.
Una decisione, quella di governo regionale e buona parte dell’Assemblea, che è apparsa a tanti come una specie di “capriccio” personale e politico, per mettere fuori causa Orlando e Bianco. I due sindaci, infatti, se fosse vigente anche nell’Isola la Delrio, sarebbero automaticamente i nuovi sindaci metropolitani. Nell’Isola invece dovrebbe procedersi con l’elezione di secondo livello (cioè a votare sarebbero i sindaci della zona, col voto ponderato).
Ma adesso le strade a disposizione sono rimaste solo due. La prima è quella indicata a caldo da Rosario Crocetta: “La norma resta com’è. Siamo pronti al ricorso di fronte alla Corte costituzionale”. Un capriccio dopo l’altro. Anche perché sia all’interno del suo governo che all’interno dell’Ars, le intenzioni sembrano diverse. Se l’assessore al ramo Luisa Lantieri si limita ad affermare che “ogni decisione verrà presa dopo una discussione col presidente Crocetta e la giunta”, già da Sala d’Ercole, a caldo, era arrivata la “bordata” del presidente dell’Ars Ardizzone: “Quella era una impugnativa scontata”. E la seconda strada è proprio quella di modificare nuovamente la legge. Il presidente della commissione bilancio Vincenzo Vinciullo, per esempio, ha anche depositato un emendamento alla cosiddetta “mini-finanziaria” per chiedere l’immediata e totale applicazione della “Delrio” in Sicilia. Anche perché insistere sullo scontro col governo nazionale rischia di creare nuovi danni, oltrea quelli già prodotti dal ritardato trasferimenti dei contributi proprio a causa dell’assenza di una legge. Entro il 30 settembre, infatti, bisognerà andare alle elezioni degli organi dei Liberi Consorzi. E la scelta del sindaco metropolitano, qualora Crocetta insistesse per lo scontro con Roma, finirebbe per essere “sub judice” fino alla decisione della Consulta. L’alternativa a quel punto sarebbe la più paradossale: una proroga dei commissariamenti fino alla pronuncia della Corte costituzionale. Un commissariamento dannoso e mai visto prima. Lungo un’intera legislatura.