PALERMO- Quindici anni dopo il massacro c’è una verità giudiziaria. Furono Gaetano e Massimiliano Cinà, padre e figlio, a uccidere a coltellate Vincenzo Chiovaro e Antonino Lupo, il 23 aprile 2002 nella piazza del Borgo Vecchio. La Cassazione rende definitiva la condanna a 14 anni ciascuno di carcere e scagiona un altro componente della famiglia, Francesco, difeso dall’avvocato Toni Palazzotto. La violenza fu la reazione a un furto. Le vittime rubavano scooter e poi chiedevano il riscatto. Alla fine regge il racconto di Cinzia Giudice e non quello del testimone Fabio Nuccio e dei pentiti Giovanna Galatolo e Francesco Chiarello.
Cinzia Giudice, arrestata anni fa per droga, fu la prima a raccontare la storia dei motorini. La violenza sarebbe esplosa, così raccontò, per il furto subito da Massimiliano Cinà che era andato a chiedere spiegazione. Solo che, temendo la loro reazione violenta, Cinà prese il coltello di un pescivendolo e colpì Chiovaro. Il padre, invece, ferì a morte Lupo. Nel racconto della donna non compariva Francesco che è stato assolto.
Questa versione era simile a quella di Nuccio, fratello di un pentito, che, però, coinvolgeva anche Francesco Cinà. Solo che, chiamato a ricostruire in aula i fatti, Nuccio, in cura con degli psicofarmaci, non ricordava quasi più nulla e anche quello che prima diceva di aver visto con i suoi occhi come l’arrivo dei Cinà e la loro fuga diventò solo una “percezione”.
Chiarello, invece, disse che i Cinà avrebbero punito con il sangue le molestie delle due vittime nei confronti della figlia di Massimiliano Cinà. C’erano molte discrepanze, però, tra la dinamica dei fatti raccontata da Chiarello e i rilievi della scientifica. Il pentito del Borgo raccontava l’omicidio nei macabri particolari. Eppure i giudici gli contestarono una serie di inesattezze: aveva parlato di coltelli “grossi e lunghi” e invece erano molto più piccoli; di ferite così profonde che “gli si poteva passare un braccio” smentite dall’autopsia; non si era accorto che lo scooter di una delle vittime fosse pieno di sangue eppure aveva riferito di averlo alzato da terra e parcheggiato. Ma era il racconto degli ultimi istanti di vita di Chiovaro che, secondo i giudici, Chiarello avrebbe infarcito delle bugie più grandi. All’inizio il collaboratore disse che Chiovaro “rotolando” si era spostato di qualche metro dal luogo dell’accoltellamento per pronunciare morente, tra le sua braccia, la frase: “Cucì non è giusto”. Solo che poi il pentito cambiò versione: la vittima era stata trascinata da altri, prima che sul suo corpo si accanissero gli assassini. “La versione finale – scrivevano i giudici – contrasta inesorabilmente coi dati obiettivi e con le risultanze testimoniali”