Un ricatto politico in piena regola quello escogitato dal vice premier Luigi Di Maio, rozzo ma efficace: “Niente discussioni, o il 2,4% o non c’è più un ministro dell’Economia”. E Giovanni Tria, galantuomo ed esperto in materia, era pronto per dignità personale a rassegnare le dimissioni se non fosse stato per senso di responsabilità verso il Paese e, soprattutto, per rispondere alla richiesta di soprassedere da parte di un preoccupato Sergio Mattarella.
Questione di tempo, però, e dovrà lasciare, sempre per dignità personale: che resta a fare? Una sua uscita dal governo adesso, invece, nel momento più drammatico per i conti pubblici, il risparmio dei cittadini e la qualità dei servizi (è prevista una dolorosa sforbiciata di circa 5 miliardi sul welfare), potrebbe scatenare una tempesta sui mercati dagli esiti imprevedibili, peraltro non del tutto scongiurati a guardare le prime reazioni fortemente negative della Borsa e l’innalzamento dello spread a quasi 280 punti mentre scriviamo.
Certo, fa impressione mettere a confronto le foto e le dichiarazioni di un Di Maio raggiante con tanto di flashmob di parlamentari e sostenitori grillini adoranti sotto il balcone di Palazzo Chigi – ormai ridotto a bivacco di partito – e l’assenza di Tria dicono sconvolto dopo avere ricevuto comunicazione dalla viva voce del principale collaboratore di Di Maio e di Salvini, un tal Conte Giuseppe, della decisione assunta: nella nota di aggiornamento al Def (il documento di economia e finanza) si indicherà un rapporto tra deficit e Pil del 2,4%, per ben tre anni, altro che l’1,6% conquistato da Tria nell’interlocuzione con la Commissione europea. Ecco accontentato Di Maio con la sponda di Salvini; i soldi c’erano – avrebbe gridato – e qualcuno voleva tenerli nascosti. Peccato che non sono soldi occultati in una segreta cassaforte dai loschi ragionieri-manigoldi del Tesoro, sono soldi in deficit, un nuovo vasto debito da onorare che peserà ora e sulle giovani generazioni.
Non solo potrebbe saltare la correzione minima dello 0,1% del deficit strutturale obbligatoria (invece dello 0,6% che ci avrebbe costretto a tagli di circa 10 miliardi) ma per giunta aumentiamo il nostro disavanzo di circa 27 miliardi (le cifre sono un po’ ballerine) impostando una manovra di circa 33 miliardi. Ciò per pagare una misura meramente assistenziale (il reddito di cittadinanza con assegno di 780 euro) forse a oltre 6 milioni e mezzo di persone che avrebbero diritto a un lavoro, per mandare in pensione anticipata forse 400 mila italiani, per le pensioni di cittadinanza (pensione minima 780 euro), per la flat tax intanto limitata a imprese e partite Iva (per le persone fisiche si partirà dal 2020 fissando tre aliquote e passare, entro fine legislatura, a due). Il tutto condito con un bel condono – i furbi continuano a farla franca – di cui non sono chiari i numeri anche se sembra definitivamente sepolto il condono tombale, il gioco di parole è intenzionale, voluto dai leghisti.
Verrebbe da domandarsi, per esempio, a cosa serva ridurre le tasse alle imprese (provvedimento assolutamente condivisibile se attuato con risorse proprie e non prestate) se poi le stesse avranno un accesso al credito bancario molto più costoso per effetto dell’innalzamento dello spread (fenomeno che colpirà pure le famiglie). E nei prossimi giorni? Difficile immaginare gli eventi, probabilmente Bruxelles, varata la legge di bilancio in coerenza con il nuovo parametro di riferimento deficit/Pil, boccerà la manovra, con le conseguenze inevitabili (procedura di infrazione, commissariamento, sanzioni e reazioni dei mercati).
Vedremo, c’è l’intenzione, fa sapere il commissario europeo degli Affari Economici Pierre Moscovici, di non alimentare il fuoco e dialogare. Tria aveva cercato di farsi barriera contro gli assalti di capricciosi personaggi oggi ai posti di comando in perenne competizione; di porsi come argine alla sfacciata pressione esercitata da chi pretende di “sconfiggere la povertà” e “regalare la felicità” scassando i conti pubblici; di impedire il drammatico scivolamento nel baratro dell’aumento del debito pubblico (giunto al 133% del Pil) per coprire spese correnti e non di investimenti utili alla crescita e, quindi, alla contrazione progressiva del debito (la Francia, invocata da Di Maio, innalzerà il deficit al 2,8% in condizioni nettamente migliori della nostra – in termini di riduzione del deficit strutturale, 0,3%, di valore estremamente contenuto dello spread, 32 punti, e di rapporto debito/Pil al di sotto del 100% – per abbassare le tasse non per foraggiare spesa corrente).
Di investimenti pubblici se ne parla, è vero, ma di concreto in manovra c’è troppo poco. Comunque, indipendentemente dagli sviluppi cui assisteremo, questo stimato professore di economia, lontano dalle tentazioni delle sirene del potere, ha già meritato il nostro rispetto nel tentativo di attuare il famoso “contratto” con gradualità ed equilibrio, senza assecondare sguaiate pretese di puro sapore elettorale. Purtroppo vanamente.