CATANIA- Alimentazione mediterranea sì, ma non troppo. L’allarme lanciato, infatti, non è tra i più rassicuranti. Sono circa sei milioni gli italiani obesi e Catania, nello specifico, non sembrerebbe essere il fanalino di coda. Il professore Luigi Piazza, intervistato da LiveSiciliaCatania, delinea un quadro preoccupante del fenomeno, soffermandosi sugli errori da non fare e ci spiega nello specifico quanto il problema incida sulla salute e gravi sulle esigue risorse economiche del Servizio Sanitario Nazionale.
Parlando di obesità professore qual è la situazione a Catania?
“A Catania c’è una situazione complessa, perché la richiesta di interventi è decisamente superiore rispetto all’offerta. Questo per ovvie ragioni. Intanto perché trattandosi di pazienti al quanto “delicati”, sono pochi i Centri specializzati con caratteristiche di eccellenza tali da garantire la sicurezza. Lo sforzo che ho chiesto alla mia amministrazione è quello di abbattere le liste d’attesa, sfruttando la possibilità di utilizzare progetti finalizzati a smaltire questa lista che qui da noi è diventata intollerabile per i pazienti, ma anche per noi. Dire di no a soggetti che hanno realmente bisogno di un intervento non è una cosa facile”.
Quindi mentre nel resto d’Italia ancora in pochi decidono di sottoporsi all’intervento per curare l’obesità, a Catania e hinterland il quadro è differente?
“Assolutamente sì. Qui c’è una richiesta fortissima. Catania, infatti, drena tutto l’hinterland catanese e non solo. Riceviamo pazienti addirittura dal palermitano, dal siracusano e tal volta anche dal messinese. Quindi, sicuramente dobbiamo migliorare la nostra risposta terapeutica”.
Il problema obesità, dunque, insieme a tutte le patologie legate ad essa riguardano una fetta considerevole di popolazione?
“ Purtroppo sì. Diciamo, in generale il meridione è particolarmente investito da questa problematica. Infatti, se da un lato abbiamo l’alimentazione mediterranea, dall’altro questa è particolarmente ricca in carboidrati. Ma l’abuso di carboidrati non è positivo per la salute, inoltre spesso è appannaggio delle classi sociali più deboli, probabilmente perché sono alimenti che costano meno. Tutte queste condizioni alimentano il problema in maniera concentrica senza poterlo risolvere”.
Alla base del problema, dunque, c’è prima di tutto una scorretta educazione alimentare?
“Certo. Cosa che tra l’altro si riflette anche sull’obesità pediatrica, quest’ultima esplosa. Quando andiamo ad osservare i bambini obesi hanno quasi tutti familiari obesi. L’imprinting ereditario sicuramente influenza, ma il fattore educazionale è quello che conta maggiormente. Si sbaglia perché si eccede nelle porzioni, ma soprattutto nella qualità, dunque eccedendo con i carboidrati senza poi consumare proteine, frutta e verdura. C’è poi anche un mancato ricorso ad una regolare attività fisica”.
Ma tornando a parlare dell’intervento di chirurgia mini invasiva per curare l’obesità, in cosa consiste?
“Vorremmo intanto non passasse un messaggio sbagliato: chirurgia mininvasiva non è sinonimo d’intervento di mini chirurgia. In realtà l’atto chirurgico in sé è molto delicato, complesso e di chirurgia addominale maggiore. Il fatto che si riesca ad eseguire questo intervento attraverso delle piccole incisioni può rappresentare, sicuramente, la possibilità di migliorare per un paziente più velocemente la qualità della sua vita. Salvo complicanze, infatti, un paziente può tornare ad una vita quasi normale nell’arco di qualche giorno”.
Ma in linea generale quali rischi si corrono sottoponendosi a questo intervento? E quando si rivela essere l’unica soluzione?
“I rischi sono notevoli, che sia chiaro. E sono maggiori quanto peggiori sono le condizioni di obesità di partenza. Ci tengo a ribadire che questa è una chirurgia delicata eseguita su pazienti delicati. Va da sé il ragionamento che se tutta la chirurgia è un aspetto terapeutico importante e delicato, nei pazienti obesi e super obesi lo diventa ancora di più. Rimane l’unica soluzione terapeutica quando è già fallito tutto il resto: diete, programmi nutrizionali e proposte di attività fisica. Ma quando l’intervento chirurgico si rende necessario deve essere eseguito in strutture sicure, altamente specializzate e con attrezzature all’avanguardia. A volte infatti è necessaria la terapia intensiva, le unità coronariche e di team multidisciplinari avanzati”.
Per la nostra salute, dunque, la prevenzione rimane l’arma più affidabile e infallibile.
“La chirurgia deve essere l’ultima risorsa terapeutica, l’ultima spiaggia e non deve assolutamente essere considerata come prima risposta per correggere l’obesità. Oggi addirittura si tende a usarla per curare il sovrappeso, il che è ovviamente da sconsigliare. Io anche come membro della Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità punto molto su l’aspetto della prevenzione prima di tutto. L’obesità prima di tutto si combatte a tavola, nelle scuole e attraverso un sano sistema educazionale”.
Ma come vi state muovendo per cercare di far fronte a quest’altissima richiesta d’interventi nella struttura dell’Ospedale Garibaldi che lei dirige?
“Mi sono già interfacciato con la mia direzione aziendale la quale si è mostrata molto sensibile al problema e ha sicuramente supportato la nostra divisione chirurgia nel porre in essere questa risposta terapeutica ai pazienti. Tuttavia, non ho ancora avuto la possibilità di discuterne a livello regionale, ma abbiamo più volte proposto un tavolo tecnico. Speriamo di poter essere presto ascoltati, perché indubbiamente occorre coordinare una task force che non parta da un’unica città”.