Squillò il telefono al giornale. “E’ morto un ragazzino, Paolo Leto, aveva quindici anni”. Chi scrive, scriveva pure allora. La storia, giornalisticamente, prometteva. Un ragazzo folgorato da un palo, la notte di Ferragosto. Ce n’è di roba da scrivere…
La casa dei Leto è in una zona residenziale, piena di dolce verde. Un quartiere di sogni, di bambini che giocano, di gatti e gerani sui balconi, di sole sui tetti. Alla porta venne il padre del morticino, il ragioniere Carmelo Leto. Faccia pallida come la luna. Una luna circondata da una notte infinita. Cambiò tutto. Non era più possibile restare professionalmente distaccati, indifferenti. Non fu più possibile, per chi scrive, dimenticare quella casa di sogni spezzati, in un piccolo paese di bambini e gatti. Sono stati anni di apprensione, di cronache continue e di affetto, accanto a un padre che non ha mai dismesso il biancore del suo volto, accanto a una madre che si è vista polverizzare il cuore, goccia a goccia. Accanto a un padre che, fino a pochi anni fa, andava davanti al cancello della scuola di suo figlio, perchè gli altri diventano grandi e i figli morti non crescono mai. Accanto a una madre che conserva gelosamente i disegni di Paolo. E non c’era più nulla da sperare, più niente da recuperare. Se non una parola sola: giustizia. I genitori chiedevano giustizia. Abbiamo raccolto sempre la loro voce. Ora, davanti alla sentenza d’appello e di condanna, padre e madre dicono: “Nulla potrà ridarci nostro figlio e la pena ci appare lieve. Ma almeno si sa che c’è una responsabilità, che quella morte è avvenuta per una negligenza”.
Nemmeno una lacrima sarà consolata, la giustizia non serve a questo. Serve a ripristinare il circuito corretto della verità. Serve per una compiuta memoria. Il resto già apparteneva al ricordo di Paolo, ai frammenti, ai disegni di scuola. Il resto, a suo modo, è immortale.
E noi che abbiamo raccontato questa storia, trattenendo ogni volta le lacrime, oggi, finalmente, ci sentiamo liberi.
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