28 Aprile 2018, 07:37
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(Il piccolo Alfie è morto stamattina, dopo la pubblicazione dell’articolo del dottore Garofalo che è una riflessione utile e profonda su un tema tanto difficile)
Ancora una volta l’opinione pubblica viene fortemente sollecitata da un caso di cronaca che ha, come protagonisti, un bimbo ammalato gravemente, i suoi genitori, dei medici, un giudice, un governo locale ed uno straniero. È già successo nel recente passato con un altro bambino, di nome Charlie; con qualche logica variante e con qualche curiosa somiglianza succede ancora adesso. Il caso è quello del piccolo Alfie, bimbo inglese, come Charlie, che poco tempo dopo la nascita manifesta i segni di una terribile malattia neurodegenerativa, dall’andamento invariabilmente nefasto, gettando nel dolore i genitori e mettendo in crisi il servizio sanitario del suo Paese, al punto da sollevare un “casus” di difficile soluzione giuridica e financo politica.
Il bambino, va subito precisato, è affetto da una malattia che non perdona; il suo difficile inquadramento diagnostico non ci impedisce di annoverarla tra le patologie neurodegenerative peggiori, quelle ad andamento evolutivo ed infausto. In altre parole, Alfie morirà; secondo una legge impietosa, una crudeltà che umanamente non si può comprendere, né in alcun modo accettare, “prima” o “poi”, morirà. E la questione più imbarazzante – e dolorosa – riguarda proprio quel “prima” o “poi”. Già, perché al manifestarsi del male, i medici londinesi hanno, come è giusto, attuato quei rimedi terapeutici che la moderna medicina tecnologica mette oggi a disposizione come strumenti “salva-vita” (respirazione assistita, in primis). Ma poi, alla luce dell’evoluzione del quadro clinico e delle logiche previsioni prognostiche, si è posto il dubbio se non fosse il caso di desistere da manovre artificiali o non fosse, piuttosto, il caso di mantenerle attive, fino a quando l’ineluttabilità della fine incipiente non avesse reso “inutili” quelle stesse manovre.
Ed è questo il punto: cosa è davvero “inutile”? Che valore riconoscere a questa tristissima vicenda, quello di una vita “pur sempre vita”, o quello di una vita immersa in una sofferenza “inutile”, rendendola una “non- vita”? Può mai, una vita, essere declinata nei termini dell’utilità? E che significato hanno quel “prima” o “poi”? I medici londinesi avrebbero già scelto per la sospensione, in ciò sostenuti persino dalla sentenza di un giudice; l’opinione pubblica mondiale si è spaccata in due e una sua parte, italiana, ha alzato la bandiera della solidarietà nei confronti di due genitori disperati, che non vogliono arrendersi all’ineluttabilità del fato.
Dipende dall’ambiente sociale: quello inglese è avvezzo ad un ragionare pragmatico ; davanti all’inevitabilità di un destino segnato, ciò che si può fare è solo evitare che una sofferenza guadagni ancora spazio temporale, che si prolunghi dolore e nient’altro, far sì che un lutto si consumi rapidamente, “prima” possibile, perché possa essere rapida anche la sua elaborazione successiva. Se così non è, ciò che si presenta non è altro che futility , qualcosa di vuoto, e quanto più è vuoto, tanto più è colpevole. Pragmatismo e concretezza, al confine con spietatezza.
Invece, la cultura del meridione d’Europa, alla quale noi apparteniamo, vive più nell’incanto delle emozioni, e anche l’accoglienza di un buon morire risente di questo afflato; se una vita è destinata a piegarsi ad una morte “innaturale”, come quella di un bambino, di certo non vuol lasciare spazio a disumanità e freddezza del cuore. Dunque, spostare al “poi” potrebbe significare pagare un prezzo, di difficile quantificazione, per ottenere più tempo e metabolizzare le scorie di un fatto di inaccettabile crudeltà.
Ma nient’altro, sia chiaro; niente, a meno di un improbabile miracolo. Nessuno si metta in mente che il bimbo possa tirare a lungo la sua fragile vita: la malattia, come già detto, non perdona. È struggente sentire che, staccata la ventilazione assistita, il piccolo abbia ripreso a respirare, anche se con grandi difficoltà. Qualcuno parlerebbe di “meccanismi biologici di nessun significato”; qualcun altro, all’opposto, ricorre enfaticamente alla “forza della vita”.
Non cambia molto. Esiste il modo di accompagnare Alfie ed i suoi genitori in questo percorso doloroso; lo sanno tutti, in primis i medici londinesi, che hanno la ventura di essere nati nella patria stessa delle cure palliative; lo sappiamo benissimo anche qui in Italia, dove l’unica alternativa consiste solo nel “poi” di scelte già fatte a Londra “prima”. No, non cambia molto.
Fa male sentire di polemiche e di trincee; fa peggio osservare la manipolazione strumentale di situazioni così delicate da parte di certa politica. Sembra che tutto si sia concentrato sulla prosecuzione di alcune tecniche terapeutiche, come la ventilazione assistita, spostando l’attenzione sugli “oggetti” presenti all’interno della vicenda, ma che non ne costituiscono di certo l’elemento più rilevante. Sono i soggetti ad avere un’importanza capitale, non gli oggetti; di cosa, in questa triste vicenda, stia succedendo esattamente alle persone (genitori, medici, persino gli stessi giudici) sappiamo molto poco.
Sappiamo solo della disperata trincea dalla quale due genitori stanno combattendo l’inutile guerra che non restituirà mai la guarigione del piccolo, ma che li sta confondendo ed ubriacando, in ciò accompagnati dal vociare scomposto di “favorevoli” e “contrari”. Non sappiamo altro. E questo poco che sappiamo è davvero molto poco. L’esperienza di ogni giorno, nelle corsie degli ospedali, al capezzale di malati in condizioni avanzate e terminali di malattia, ci presenta, curiosamente, elementi che hanno una certa somiglianza con la triste storia di Alfie.
Ci sono storie che riguardano figli, coniugi, fratelli, amici, congiunti che, sotto la pressione schiacciante del dolore di una perdita imminente, sull’onda emotiva della disperazione, nel tentativo di negare ciò che si sta evolvendo sotto i loro occhi, combattono sterilmente per una trasfusione in più, per un ciclo ancora di chemio, per la sacca di nutrizione che, si ritiene, negata “… perché volete farlo morire di fame, ecco cosa volete!”. Ci si attacca con disperazione agli oggetti, nel tentativo inconsapevole di mantenere con noi i soggetti, le persone care, chi, seguendo le logiche a volte incomprensibili della vita umana, ci sta lasciando “per errore, per colpa di qualcuno, per ingiustizia”.
E non è proprio così, ma, disperati, è questo ciò che si pensa e, a volte, si urla. C’è la difficoltà di vivere insieme l’ultimo tratto di una storia umana, le nostre storie per intero, dall’inizio alla inevitabile fine. C’è un grottesco sforzo rivolto alla negazione della morte, all’accettazione della finitudine delle nostre vite, che vorremmo rimanessero sospese nella nostra mondana, falsa, eternità temporale. Specie se ad andarsene sarà un innocente, un bambino, portandosi con sé la sua tenerezza disarmata.
In un braccio di mare tra Sciacca e Pantelleria, un paio di secoli fa, tra la meraviglia del mondo intero, un giorno comparve un’isola. Per l’impossibilità di dare spazio all’incanto dell’anima, questa fu subito presa d’assalto da tanti Stati, dall’impero britannico a quello borbone; dai francesi agli spagnoli, tutti ansiosi di piantare la propria bandiera in cima all’eminenza più alta dell’isolotto. E si stava scatenando una vera guerra tra più popoli, per la bramosia del possesso e del potere. Ma nel cuore delle polemiche, quando persino il nome di quello scoglio delle meraviglie divenne oggetto delle liti più feroci, l’isolotto, trascorso qualche anno, venne nuovamente inghiottito dagli abissi. E lì, a pochi metri dalla superficie, si trova ancora ciò che resta dell’isola “Ferdinandea”, chimera del mare, fantasma di roccia tra sopra e sotto il pelo dell’acqua.
Così può sembrare la vita del piccolo Alfie: l’effimero comparire e scomparire di una vita mai guadagnata, dunque mai perduta veramente. E mentre due parti contrapposte guerreggiano su oggetti senza alcun significato, resta il disgusto di una squallida recita e l’amarezza di non saper immergersi alla radice della vera umanità, per rispettarla veramente, ammirarla, infine amarla.
Aggiornamento
Il piccolo Alfie Evans è morto. Lo hanno annunciato entrambi i genitori su Facebook
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28 Aprile 2018, 07:37