CATANIA – L’arresto del sindaco di Acireale Roberto Barbagallo è una vera è propria “bomba morale” che esplode nella Città delle cento Campane, nella città del Carnevale e di tutte quelle altre espressioni che fanno della regina delle Aci un’eccellenza vera o presunta. Eccellenza che da tempo è sotto attacco, sbriciolata da incroci grotteschi che rendono quella che un tempo era una piazza nobile in una vecchia signora sguaiata. Barbagallo va in carcere a pochissimi giorni dalle Politiche, nelle ultime battute di quello scontro epico fra due campioni di dell’aristocrazia acese (in senso largo): Basilio Catanoso e Nicola D’Agostino. Che lo scontro sia guereschiano, lo si è già detto ampiamente. L’arresto di oggi, tuttavia, fa traslocare di genere letterario l’intera contesa: dal romanzo d’appendice del Candido, finiamo ai rivoli della cronaca più paludata.
Mandiamo indietro il registratore e fermiamoci un po’ a pensare. Che la narrazione del comprensorio acese sia ormai finita quasi esclusivamente tra le spirali oscure è un fatto: basta guardare i bollettini degli ultimi anni. Mettendo assieme i cocci ne esce fuori l’arresto di un altro sindaco, Ascenzio Maesano di Aci Catena. Ma anche di uno dei giornalisti televisivi più popolari dell’hinterland, Salvo Cutuli. Metti poi il caso del presunto voto di scambio sollevato da le Iene all’indomani delle scorse Regionali e che vedrebbe coinvolto il candidato forzista Nino Castro (che intanto si è detto estraneo ai fatti). Sfogliando ancora gli annali, ma non di troppo, arriviamo alla dolorosissima vicenda di monsignor Carlo Chiarenza, stimatissimo accademico degli zelanti condannato dalla Santa Sede per i presunti abusi sessuali ai danni di uno dei figli (allora minorenne) della migliore borghesia cittadina, Matteo Pulvirenti.
Che quella vicenda abbia sfibrato la coscienza civile di una città che tra mille ipocrisie non si è riconosciuta più in se stessa, è superfluo ricordarlo. Per non parlare poi dello scandalo dei “furbi del cartellino”: il termometro di un lassismo generalizzato. Le dirette streaming del consiglio comunale, poi, rappresentano al peggio un quadro sfilacciato: un’aula ormai ridotta in dopolavoro condito da uscite poco felici di esponenti che le sparano a destra e a manca: contro campioni olimpici, donne in politica ed elemosinieri “neri” da semaforo. Siccome però “niuru cu niuru non tingi”, andiamo ancora avanti nel racconto.
Come dimenticare poi quella notte. Quando una bomba carta fu scagliata sulla macchina della moglie del sindaco Barbagallo e una testa d’agnello fu lasciata penzolare sul cancello di casa Nicola D’Agostino, l’onorevole maestro di quel primo cittadino che nelle Aci – ma anche a Catania – è più semplicemente conosciuto come Roberto. Allora gli attestati di solidarietà furono tanti e bipartisan. “Roberto, siamo con te”. “Nicola, siamo conte”. Tutti compunti, tutti sinceri, tutti obbligati. Oggi però non c’è nulla verso cui solidarizzare. Nulla. Il ritratto del sindaco–bravo–ragazzo è andato in frantumi. Quell’immagine benevola che ha fatto soprassedere i più maliziosi anche su qualche scivolone pubblico in zona congiuntivi, è passata. Così come è ormai sbiadito il profilo interventista di un sindaco in muta da sub che voleva verificare di persona le condizioni della Timpa e quella del sindaco in tuta bianca intento a ripulire le strade cittadine dai rottami del nubifragio che nel novembre 2014 piegò la riviera ionica.
Acireale oggi si scopre sempre più povera e priva di nobiltà. L’elite si rivela disinvolta e vulnerabile. Ipocrita e solo in parte “parrinara”. C’è troppa polvere sotto i tappeti e neanche i richiami storici a quell’Acireale che fu, ricca e “cantera” di una delle classi dirigenti più lungimiranti del Sud, può contenere. Cristoforo Filetti non c’è più. Rino Nicolosi non c’è più, la cui parabola umana e politica può dirci tanto ancora oggi. Di quella stagione, non restano altro che le carcasse ormai dismesse delle Terme e della Pozzillo. Restano pure le foto ormai sbiadite dell’Acireale in B e dei successi nella pallanuoto. Ma anche di una aristocrazia ormai priva di araldica e regredita verso un provincialismo da dita nella marmellata, che prega santa Venera e san Sebastiano e intanto “fotte il prossimo” senza neanche chiedere assoluzione.