Lager per disabili - Live Sicilia

Lager per disabili

Siamo buoni, siamo pietosi, siamo sensibili e attenti. E cosa facciamo nel nostro tempo libero? Fabbrichiamo giorni perfetti e campi di concentramento per disabili.

C’è tanto nel video che mostra un padre mentre accompagna il figlio in carrozzina, a forza di braccia, su per le rampe di scale di una piscina. Una salita che la disabilità rende crudele. C’è l’amore che non si rassegna nel compiere la sua missione di eroismo quotidiano. C’è la chiusura di un mondo circostante che acuisce l’handicap con la sua indifferenza. C’è il silenzio di un pianeta sfocato, con radi colori. Una macchia arancione: la cuffia. C’è il resto: l’opacità indistinta del prossimo. Invisibile. Impalpabile. La sofferenza conosce un’unita di misura assoluta e una relativa. Esiste in termini perentori. Se hai gambe e piedi paralizzati non puoi camminare. Punto.

C’è poi un aggravamento di pena. E’ l’ostinazione delle strutture, la sordità delle orecchie, l’assenza delle mani. L’impatto tra un disabile e le realtà compone una relazione. Ci fossero curve dolci e angoli smussati, le gambe sarebbero immobili, ma la sedia a rotelle troverebbe davanti a sé una strada spianata. La condizione dell’impotenza fisica non sarebbe sconfitta, però non avrebbe il volto arcigno di un carceriere che sorveglia una prigione inaccessibile. La prospettiva si capovolge. Da una parte una persona con una voglia normale di vita, dall’altra una società che non riesce a garantirgliela, perché è lei la vera disabile.

E’ facile indignarsi, spiando il filmato di Agrigento, come si spia l’altro da sé. E’ semplice cercare colpevoli concreti o ipotetici, prendersela col sindaco, col gestore della piscina, con chi ha messo le scale lì, con chi non ha sistemato lo scivolo, con chi passava per caso e non ha aiutato quel padre nella sua fatica disperata. Ma l’episodio che desta scandalo è l’apice di una contrarietà diffusa a occuparsi sul serio della questione di una cittadinanza aperta a tutti e per tutti fruibile.

L’essere umano in carrozzina desta scandalo. E’ un chiodo piantato nelle nostre certezze salutiste. E’ una minaccia per l’oroscopo della settimana a cui abbiamo chiesto, in sommessa preghiera, la garanzia di buoni auspici. E’ una contraddizione nei giorni che fabbrichiamo. Li vogliamo ariani, perfetti, ottimisti. E se pure c’è quel poco o tanto di dolore che sempre c’è, che sia spazzato e accantonato in un angolo. Nella super-efficienza della macchina nel nostro specchio pubblico l’imperfezione non ha posto. Nella patologia dei nostri tarli privati non andiamo oltre la felicità da marketing per il sorriso candido dei denti. L’ampiezza dell’anima rappresenta un rischio. L’ombra di una carrozzina ci terrorizza. Ci spaventa il corpo dolente che si sovrappone al nostro. Non abbiamo che un corpo, uno solo, impiccato allo specchio.

Con lo sprezzo di chi se ne lava le mani abbiamo perciò sistemato i diversamente abili in campi di concentramento mentali e fisici. Fuori dall’orizzonte. Ristretti nella celle di città ostili. Che stiano chiusi in casa e non si facciano vedere. Che portino i loro occhi altrove, non proprio qui nei miei. Purtroppo ci hanno fregato. Li abbiamo incatenati per sentirci più sicuri. E loro, i reclusi, hanno imparato a volare.


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