Seduto in questa piccola trattoria col giornale, in uno di quei pochi giorni in cui sto bene anche con me e sto saltando tutte quelle notizie che fanno male e oggi non ce n’e’. Seduto in questa piccola trattoria sul mare, in uno di quei giorni in cui saprei parlare pensa, anche d’amore
Era una volta che volevo fare pace. Parecchi anni lontano da Palermo. Ci avevo litigato, perché mi aveva costretto ad andare via. E io troppe volte avevo avuto questo gusto aspro della cacciata. Per lavorare dovetti dirle addio, e lei senza la minima piega mi aveva salutato. Da città sempre affezionata a chi la violenta.
Era un giorno che avevo deciso di stare da solo. E non si lascia mai uno a tracimare ricordi. Decisi di andare nel posto dove mio padre trovava pace a sua volta. Una piccola trattoria sul mare, una località marinara sulla costa orientale. Era il buen retiro di mio padre che si sedeva a capotavola e guardava i convitati che aveva voluto con lui al tavolo per essere felice. Anche mia nonna materna ci andava, ma meno volentieri, provò ad andarci un paio di volte ma non si confaceva al suo ideale di locale in cui costringere con metodi subdoli, ovvero ricatti di ira sempiterna alla luce del sole, tutta la famiglia a mangiare con lei.
Mio padre no, andava volentieri. E tormentava i camerieri con la sua pizza che doveva essere fatta “con il salame sotto la mozzarella, e poi un filo d’olio ma appena uscita dal forno, olio al peperoncino, mi raccomando”. Tanto che ne fecero una così per sfinimento inserendola nel menù come “pizza alla Giovanni” e formando tutti i nuovi camerieri a questo enorme scassaballe con la barba e il fare austero molto finto.
I primi tempi quella trattoria gli piaceva così tanto, però diceva “peccato che non hanno l’amaro Averna”. Fino a che il proprietario, amorevolmente sfinito da quel professore che sotto sotto adorava, ne comprò una bottiglia che apriva solo per lui. E mio padre non gli credeva che ne era unico depositario, credeva che lui la comprasse ogni volta. Finì che che misero un segno con il pennarello indelebile, per dimostrare che il livello non veniva intaccato fino a che non ritornava.
Non tornavo lì dalla sua morte. E decisi di sfidare ogni malinconia. Andai alla sua trattoria. Mi sedetti al suo tavolo. Ordinai la sua pizza. Una giornata morta. Davanti al mare, dalla ringhiera, gli dissi che avevo bisogno di parlargli. Che era un momento in cui mi stava cambiando tutto, ed era l’unico che poteva dirmi qualcosa. Che non riesco a sentire mai interamente.
Era come averlo a fianco a me, come farsi scompigliare i capelli, come sentirlo dire ancora: “sei una testa di minchia, ma che bene che ti voglio”. Il cameriere mi mise una mano sulla spalla, feci finta di essere raffreddato. Il proprietario mi riconobbe.
Da dietro la vetrina della pizzeria mi sorrise. sembrava uno di quei gestori di locali americani, quei volti cinematografici storti e pieni di cicatrici esistenziali come Al Pacino. Mi fece cenno di aspettare un attimo e rientrò e mi portò una bottiglia, era il suo Averna. Ancora con la tacca, dell’ultima volta che era venuto, anni prima.
In lacrime trattenute con dignità mi disse “non l’abbiamo più toccata”. Io feci come faceva spesso mio papà con lui, lo feci sedere e versai per due. Lasciando la tacca abbondantemente sopra come fosse la sbarra del passato che si allontanava ma era lì, solida, nera, vischiosa.
Ci sono ritornato un’altra volta. Era tutto cambiato. Camerieri, proprietario. Resta solo quella canzone. Quella che mi venne in mente in quel momento: Era “in trattoria” di Fabio Concato. Che ancora adesso mi riporta a mio padre e al suo sangue che mi ha trasmesso. Quel sangue un po’ apolide di chi “non ha mai perso il gusto di smarrirsi e di cercare, ma ci saprebbe tornare in quella trattoria.”.
Quanto a te Giovanni, papà, a distanza di tanti anni, sappi che non si fa così, non si lascia una bottiglia di Averna mezza piena. Lo dice la tacca. Sei una testa di minchia, papà, ma che bene che ti voglio. Buona festa, ovunque tu sia. Che tanto lo so dove sei. Qui. In trattoria, con me.