Cercando Don Pino a Brancaccio

Cercando Don Pino a Brancaccio

Don Pino Puglisi sarà beato. E' una beatitudine che riguarda Brancaccio, epicentro del suo apostolato? Siamo andati a vedere.

Piazza Anita Garibaldi si apre con un campetto di calcio. Le porte non hanno rete, ma almeno ai bambini è concesso uno spazio per giocare, per fare finta di non essere più in piazza Anita Garibaldi, con le macchine sul marciapiede, le case cadenti e quel segno incancellabile di morte. E’ un campetto piccolo, sgarrupato. Il resto ce lo mette la fantasia di chi si immagina Cristiano Ronaldo col ciuffo ribelle sotto un cielo glorioso e palpitante.

Nell’angolo in cui fu assassinato Don Pino Puglisi, Beato della Chiesa, non c’è niente. Rimane l’espressione del prete di Brancaccio in un ritratto votivo opaco. Una targa rammenta: “A Padre Puglisi noi giovani liberi. La mafia è forte, ma Dio è onnipotente”. Chi sono i giovani liberi? Non la bambina che gioca col papà a pochi passi dall’ombra di don Pino, soffocata dallo smog. Non i ragazzi che escono da portone di una casupola per topi. Ridono forte. Si imbarcano su un ciclomotore. E partono. Partono alla volta di Palermo. Quando vedranno il profilo di piazza Politeama, si sentiranno come i marinai di Cristoforo Colombo, inconsapevolmente e annichiliti dalla foschia e dalle coste di un mondo nuovo.

Non servono parole, per cercare don Pino. Basta chiedere alle pietre e alle cose. Che rispondono. A Brancaccio Padre Puglisi non c’è più. Non c’è l’integrazione che sognava. Sopravvive, in qualche zona remota, la memoria. Ma è un rito che si esercita a Palermo, più che qui. In viale Strasburgo è più facile commuoversi. E’ più comodo bearsi della beatitudine del parroco dallo sguardo mite. Qui, nel cuore del suo apostolato – tra stenti e campetti sgarrupati – non ce n’è traccia. Non c’è bisogno nemmeno di chiedere in giro. Le cose e le pietre non mentono mai.

Sul marciapiede che vide tutto, lo sparo, le occhiate, la caduta, c’è una macchia di sporcizia. Le macchine sono posteggiate una sopra l’altra. Invadono il recinto del sacrificio. Ci vorrebbe qualcosa, una difesa materiale perché sia intoccata proprio la porzione di spazio che porta l’ultima orma di Don Pino. O forse è meglio così. Nessuna ipocrisia. A che vale erigere altari urbani, se nessuno ricorda davvero? La bambina gioca a palla. La fa rimbalzare contro il muro. I ragazzi in motore, a quest’ora, avranno già trovato l’America.

In via Azolino Hazon, nella terra promessa dei famosi scantinati, Don Pino non c’è. Non si vede il riflesso del suo sorriso che era vero ed è stato sciupato da troppe iconcine che lo immortalano pronto per il martirio, perpetuando la convinzione siciliana che ci siano uomini nati soltanto per morire di morte violenta, per destino, ostinazione o ricerca. Invece quel sorriso era insieme una vocazione al dono e un inno alla speranza della vita, che stanno obbligatoriamente accanto se sono sincere. Un corteggiamento alla vecchiaia serena. Un anticipo di liberazione. Sui muri di via Hazon ci sono richiami sgrammaticati d’amore di vernice blu.

Il condominio numero diciotto è il simbolo del degrado, secondo definizione sociologica e giornalistica. Il palazzo maledetto, secondo più sbrigativa sintesi. Non pare diverso da allora. Qui Don Pino venne più volte, nello stabile sopra gli scantinati. Qui abitavano – chissà se ci sono ancora – le famiglie di due ragazzi massacrati a Borgo Vecchio nell’ora di punta. Uno che conosce bene pietre e biografie: “Non è cambiato niente. Continuano a rubare l’acqua e la luce. Sono malacarne. Le forze dell’ordine girano alla larga. Giustamente, si scantano. Finisce spesso a coltellate. Sono tinti”. Esiste una Bracaccio più povera nello stomaco di Brancaccio. Vige l’apartheid dei disperati.

In pochi parlano con gli “americani” delle baracche vicino al passaggio a livello. Li chiamano così perché stavano da un’altra parte. “Hanno trovato l’America”, spiega una voce. Un continente di topi e sguardi ostili. Ogni tanto qualcuno aspetta il treno e attraversa. Poi non se ne sa più niente. Un altro campetto malmesso, peggio del primo. Il ferro delle porte è arrugginito e piegato. Dodici bambini corrono in un fazzoletto d’asfalto. Urlano, con le facce accaldate e il petto nudo.  

 Nella parrocchia di San Gaetano è tutto bianco, senza considerare la camicia scura del parroco, don Maurizio, che si veste per la messa. Che ne pensi? “Come che ne penso?”, risponde lui, strabuzzando gli occhi per la domanda stupida. “La comunità è felice e colpita – dice don Maurizio – molti non lo sanno. Darò la notizia nel corso della celebrazione”. In sacrestia, ragazzi col vestito bianco, bianchissime candele. I preparativi fervono. Un gruppo di giovanissimi prova i canti. Ci sembra di avere visto un violino, magari sarà un’illusione. Ci sembra d’avere notato un sorriso.

 

 

Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI