CATANIA – È scarcerato. Giovanni Comis, arrestato lo scorso ottobre nel blitz Picaneddu, è tornato in libertà. Il figlio Massimo ha postato il giorno della Domenica delle Palme la foto del papà appoggiato alla ringhiera del balcone di casa dandogli il benvenuto. I commenti sono centinaia. E tra questi c’è anche chi fa ben capire che il boss di Cosa nostra – che ha espiato una condanna definitiva nel processo Orfeo come capo del gruppo di Picanello – è uscito dal carcere. Il boss ha quindi trascorso la Pasqua in famiglia. Sui social è postato un piccolo album. In uno scatto Comis è con la sua consorte, che sta affrontando un procedimento per 416bis, cioè mafia.
A decidere la scarcerazione di Giovanni Comis è il gup davanti a cui si sta celebrando l’udienza preliminare dell’inchiesta per cui è indagato per intestazione fittizia e autoriciclaggio. Contestazioni che risalgono al 2017. Un quadro cautelare che ha fatto decidere per l’attenuazione della misura e quindi per la remissione in libertà, chiesta (e ottenuta) dagli avvocati Salvo Pace e Francesco Antille.
Giovanni Comis resta uno dei tanti sorvegliati speciali della città. Il suo profilo criminale non è certo da prendere sottogamba. Il suo nome compare già nei faldoni del maxi processo alla famiglia catanese di Cosa nostra Orsa Maggiore degli anni Novanta. Nel 2013 scatta il blitz Fiori Bianchi, frutto delle rivelazioni dirompenti dell’ex reggente militare Santo La Causa, e finisce in manette il capo di Picanello Lorenzo Pavone.
Da lì a poco esce dal carcere Comis che si prende le redini del fortino dello storico capodecina, vicinissimo a Nitto Santapaola, Carletto Campanella. Certo il boss – che si affida a due autisti per muoversi – non immagina che nel quartiere ci sono cimici dei carabinieri piazzate dappertutto. E così gli affari del gruppo di Picanello – storicamente dotato di un’autonomia speciale rispetto alle altre squadre e con il raggio di comando anche sulla zona acese – sono immortalati dalle microspie. Moltissime intercettazioni hanno costituito lo zoccolo duro dell’operazione Orfeo del 2017. Da quell’inchiesta è emersa anche qualche rimostranza tra i soldati per la gestione Comis rispetto a Pavone.
Il pentito Antonio D’Arrigo, detto ‘Gennarino’, accusa Comis addirittura di aver “fatto sparire dei soldi”. E che per questo poi i nuovi capi, succeduti al boss dopo il suo arresto, hanno dovuto ridurre “gli stipendi”. I verbali del collaboratore sono finiti nel bliz Picaneddu, scattato qualche mese fa. L’operazione ha portato anche al sequestro della casa discografica per artisti neomelodici – la QFactor intestata tra gli altri al figlio Massimo- che per la magistratura sarebbe stata creata con i soldi sporchi di Comis.
A prendere lo scettro di vertice dopo l’arresto di Comis nel 2017 sarebbero stati per un breve periodo Giuseppe Russo (detto il giornalista o l’elegante) ed Enzo Dato “u pirignu”. Poi è arrivato il vecchio boss Carmelo Salemi, che ha cercato di rimettere in sesto il gruppo mafioso. Tutti e tre sono imputati nel processo Picaneddu.
Con la scarcerazione di Comis il baricentro degli equilibri mafiosi potrebbe essere tornato nel quartiere al confine con il borgo marinaro di Ognina. Anche perché, non dimentichiamo, che a piede libero c’è anche Saro Tripoto. Anche lui un personaggio di un certo rilievo del gruppo di Picanello. Ricordiamo che i carabinieri lo trovano nel 2009 seduto al tavolo con tutti i vertici della cupola del clan Santapaola-Ercolano, convocati da Santo La Causa in una villetta a Belpasso.