PALERMO – Oggi sarà il giorno clou. Quello in cui l’ex presidente della Regione potrebbe conoscere il suo futuro e sapere se lavorerà per i poveri. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma potrebbe infatti decidere se accogliere o meno la richiesta presentata da Totò Cuffaro tramite il suo avvocato, Maria Brucale, che ha firmato lo scorso ottobre l’istanza in cui chiede di finire di scontare il resto della sua pena tramite i servizi sociali. E il parere della Procura generale sarà fondamentale. Cuffaro, nella sua richiesta, era entrato nello specifico.
Il suo desiderio sarebbe infatti quello di mettersi al servizio “dei più poveri e degli ultimi della missione Speranza e Carità di Biagio Conte”, a Palermo quindi. Cuffaro è detenuto nel carcere Rebibbia di Roma dal gennaio del 2011, quando per lui scattò la condanna definitiva a sette anni per favoreggiamento alla mafia. Da allora, la sua condotta dietro le sbarre sarebbe stata impeccabile ed è proprio questo uno dei requisiti su cui si dovrà basare il Tribunale di Sorveglianza, che potrebbe anche riservarsi di decidere.
L’affidamento in prova ai servizi sociali diventa plausibile solo nel momento in cui il giudice ritiene che si tratti dell’alternativa necessaria al carcere per completare il percorso rieducativo del detenuto. Oltre alla condotta in carcere, quindi, serve la rivisitazione critica del passato del detenuto. Proprio in quel passato recente Totò Cuffaro ha sempre ribadito di non condividere le decisioni dei giudici, ma di rispettarle. Ma la richiesta di affidamento ai servizi sociali si baserebbe anche sul fatto che non ci sarebbe più alcun collegamento fra Cuffaro e i personaggi legati a Cosa nostra che lui favorì.
L’ex governatore, come stabilito dalla sentenza definitiva, ha avuto rapporti con Giuseppe Guttadauro, medico e capomafia di Brancaccio, al quale fece sapere, tramite Mimmo Miceli, pure lui dietro le sbarre, che in casa sua c’erano le microspie. E sempre Cuffaro avvertì l’imprenditore della sanità Michele Aiello, poi condannato per mafia, che i magistrati di Palermo indagavano sul suo conto. Lo aveva saputo grazie ad una rete di talpe negli uffici della Procura.
Adesso, dopo quasi tre anni, l’ex presidente della regione tenta di lasciare la sua cella la pianoterra del carcere di Rebibbia e tenta di ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali, misura che infatti, non viene esclusa per i reati aggravati dall’articolo 7, ovvero l’aggravante mafiosa.