13 Febbraio 2018, 18:16
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PALERMO – “Scusi, può spiegare alla Corte perché ha pagato?”, chiede il pubblico ministero. Risposta: “O pagavo o non so cosa mi succedeva. Avevo paura per me e la mia famiglia”. In Tribunale è il giorno della testimonianza di Riccardo Gennuso, titolare di una sala bingo, a cui chiesero il pizzo.
Sotto processo ci sono il boss di corso dei Mille, Cosimo Vernengo, il figlio Giorgio e Paola Durante. Da chi partì la richiesta estorsiva? Il pubblico ministero Francesca Mazzocco mostra a Gennuso, figlio del deputato regionale Giuseppe, un album fotografico. La parte offesa, che non si è però costituita parte civile al processo, senza esitazioni indica “Cosimo Vernengo, Giorgio Vernengo e la signora alla mia destra”. Nel gabbiotto che ospita gli imputati detenuti è seduta Paola Durante, che lo guarda perplessa.
Secondo l’accusa, i mafiosi vollero i soldi per cedere il bar all’interno della struttura che si trova nel rione Guadagna. Non c’era alcun accordo scritto, ma i Vernengo l’avrebbero gestito affidandolo a Paola Durante a cui, nel maggio 2016, Giorgio Vernengo chiedeva: “Ascolta, ti volevo ricordare… che domani le scadenze”. Risposta: “Non mi ha dato ancora niente, va bene?… mi rinvia”.
Alla fine i soldi sarebbero stati pagati. Il pizzo mascherato con delle fatture per forniture inesistenti. Circostanza che emergeva dalla denuncia delle vittime: “Durante l’incontro la donna mi disse che, siccome dovevamo al titolare 50.000 avremmo dovuto pagare intanto 5.000,00 euro in contanti per i prodotti alimentari in giacenza… la donna mi presentava una fattura emessa dalla società A.F. Serramenti sas di Riposto (CT) per un importo di 3.050 euro per lavori mai effettuati presso la sala bingo. Alla consegna della citata fattura la signora Durante mi diceva testualmente: ‘Cominciate a pagare con questa’”.
I legali degli imputati, gli avvocati Rosalba Di Gregorio e Michele Calantropo, sostengono una tesi diversa: i soldi altro non erano che il pagamento per l’avviamento del bar e i macchinari lasciati in dotazione. Niente pizzo, dunque. Era una legittima richiesta dei Vernengo, al di là del cognome che portano. E non ci fu alcun clima di terrore come emergerebbe dal contenuto di alcune conversazioni intercettate e dal tenore confidenziale. Gennuso non ci sta. Aveva comprato azienda e locali, materiali compresi. Ogni altra richiesta era superflua ed è stata assecondata per paura: “Le fatture erano l’unico modo per giustificare l’esborso di denaro. Ma i lavori non sono mai stati fatti. Ho pagato infissi che non mi sono stati consegnati. Mi sono sottomesso”.
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13 Febbraio 2018, 18:16