Ci sono eventi che, per quanto lontani, finiscono col raggiungerci. E toccarci. Mi riferisco alla recente scomparsa dell’avvocato Carlo Federico Grosso, uno dei più bravi ed apprezzati penalisti italiani. Era venuto a Palermo il 20 maggio scorso, per discutere la posizione del suo difeso, l’ex ministro Calogero Mannino. Non stava affatto bene a causa dei suoi gravi problemi polmonari. Si muoveva in sedia a rotelle. Giunto in aula si era accomodato al banco della difesa, e prima di prendere la parola, aveva chiesto alla Corte il permesso di potere discutere, rimanendo seduto. Mi dicono pure che ha parlato per un paio d’ore. La sua sofferenza era palpabile. La voce a tratti flebile, a volte in tutto simile ad un sussurro.
Era spossato, alla fine della sua discussione, profonda, puntuale, appassionata. Non era presente in aula alla lettura del dispositivo. La sua vittoria, l’ennesima, gli è stata comunicata per telefono da un collega del collegio di difesa. Se ne è andato due giorni dopo. Tutto questo mi ha colpito, ha scatenato un turbinio di pensieri. Mi sono venuti in mente concetti come abnegazione, senso del dovere, amore per la professione. Sacrificio, addirittura. Un anziano avvocato- 81 anni -, in precarie condizioni di salute, lì, in prima linea, a fare comunque il suo lavoro, li rendeva congrui, appropriati. Ma non mi appagavano.
Qualcosa mi dice che Carlo Federico Grosso, si è voluto fare l’ennesimo regalo. Studiarsi il processo, preparare gli appunti per la discussione finale, mettere in ordine la scaletta, rendere armonici i collegamenti tra i vari temi, vedere i precedenti giurisprudenziali, annotare le varie deposizioni e mille altre cose. E poi, affrontare il momento finale, quello magico, quello della discussione avvertendo il peso della responsabilità per le sorti del cliente. Beh, vi posso assicurare che non c’è nulla di più bello e gratificante per un avvocato. E’ adrenalina allo stato puro. E’ un qualcosa che inebria. E’ il trionfo dell’egoismo nel senso più nobile e più simpaticamente umano del termine. Lo stesso egoismo che prova l’attaccante puro quando è nell’area piccola e vuole andare a rete. E vuole andarci lui.
Non lo conoscevo Carlo Federico Grosso, se non di fama. Però, lo immagino alla vigilia di quel 20 maggio. Immagino le preoccupazioni dei suoi familiari, le loro raccomandazioni “ricordati le pillole” e lui che rassicurava tutti. Per amore, non per altro. Lui e lui solo sapeva che affrontare le fatiche del viaggio e della trasferta, e la carica di emotività che precede ed accompagna la discussione di un processo importante, tutto questo per lui avrebbe avuto un effetto benefico 10-100-1000 volte superiore a quelle stesse pillole che aveva promesso di non dimenticare. Il leone, il vecchio leone, ha voluto provare, ancora una volta, il gusto autentico e irripetibile della battuta di caccia. Se ne è andato due (dico due) giorni dopo aver saputo della sua vittoria. L’ennesima. La più bella. L’ultima. Adesso, mentre scrivo, ho i lucciconi. Il fatto è che, ve lo giuro, non riesco, proprio non riesco ad immaginare un finale più autenticamente romantico di questo.