Proviamo a guardare la foto di Ilaria Boemi, trovata morta in una spiaggia di Messina, come se avessimo tra le mani l’immagine di un’amica. Tentiamo di sintonizzarci sull’onda del dolore di coloro che l’hanno amata. Cerchiamo di andare oltre la sua ultima notte, oltre le possibili circostanze della sua fine, oltre l’inchiesta. Proviamoci, a navigare al di là del mare di Facebook: non è lì che si rintraccia l’identità compiuta di una persona. Infine, riprendiamo in mano quella foto, i selfie di Ilaria, le sue frasi di spleen adolescenziale (e tutti gli adolescenti le scrivono sui diari, senza per questo morire), i suoi piercing (e non tutti gli adolescenti che li esibiscono, poi muoiono). E finalmente riscriviamo – senza nulla tacere, ma senza sovrabbondare in niente – il romanzo di questa sedicenne.
La vita brevissima della piccola Ilaria è, suo malgrado, diventata un manuale di sociologia da vite perdute, perché questo è il mondo degli sguardi dal buco della serratura che hanno la presunzione di ricostruire altri universi, con la livella del luogo comune. Questa è la patria del virtuale che basta a se stesso e che da un frammento pretende di ricreare una biologia, un senso. E invece Lillo, suo fratello, ha fatto bene a ricordare al funerale: “Mia sorella era una bambina, aveva solo sedici anni e tanta voglia di vivere. Non faceva uso di stupefacenti. Se le analisi diranno il contrario vuol dire che qualcuno le ha messo qualcosa in un cocktail che aveva bevuto poco prima”. E i compagni: “Non era quella che è stata descritta e che appare sulle foto di Facebook, era una ragazza splendida, buona, educata”.
Non vuol dire dimenticare il resto, la cronaca e le indagini, il mistero di una tragedia che dovrà comunque avere una spiegazione, con le sue eventuali colpe e responsabilità. Non significa nemmeno sottovalutare la corrette analisi di quel passaggio tormentato che è l’adolescenza – sottolineando rischi ed errori – purché si faccia per stare vicini ai ragazzi nelle loro difficoltà, comprendendoli per ciò che sono, non considerandoli polli di batteria, rinchiusi nella gabbia generazionale.
Ilaria era una giovane donna, con le sue terrazze luminose, i suoi scantinati bui dell’anima: è la storia di tutti. Non meritava di essere raffigurata come l’esclusivo emblema di un libro di testo sul celeberrimo quanto ignoto “disagio giovanile”. Che esiste, anche, perché gli adulti, coloro che avrebbero ogni risposta, non si occupano più delle domande. E smarriscono – i grandi – ogni residua autorevolezza, ogni collaterale dolcezza agli occhi dei più piccoli, quando appaiono soltanto cresciuti, raramente maturi. “Io so cosa sta passando oggi mio padre che per Ilaria avrebbe dato tutto, anzi ha dato tutto quello che poteva”, dice Lillo, il fratello. E c’è una madre. E ci sono parenti, amici, vicini. Che hanno diritto alla verità, come Ilaria ha il diritto di non essere ricordata solo per una foto col fumo intorno alla faccia.
C’è tanto altro, di amore e di tenerezza da non disperdere al vento. C’è una delicata icona dell’infanzia, un altarino alla memoria, sulla pagina social della sorella con una dedica: “Siamo cresciute insieme. I primi bagnetti insieme, i primi giochi insieme, le prime risate insieme, le prime litigate insieme e a volte anche qualche bastonata. Poi crescendo le nostre strade si sono divise e tu non eri più la stessa, solo dio sa quante volte mi facevo il sangue amaro a vederti con un piercing nuovo o con un nuovo colore di capelli ma allo stesso tempo rivedevo nei tuoi occhi la stessa bambina di un tempo desiderosa di affetto”.
C’è un cuore nascosto, con le sue emozioni. Ci sono pagine chiare che non vanno strappate. Ecco il vero romanzo di Ilaria e dei suoi occhi da bambina.