CATANIA – Sepolto ieri mattina al cimitero di Catania, in forma strettamente privata dalla famiglia. Un percorso praticamente obbligato dopo il divieto di celebrare i funerali pubblici. Si chiude così, almeno per ora, il caso legato alla morte di Giuseppe Salvo. Detto “Pippo u carruzzeri”, temuto boss del Villaggio Sant’Agata di Catania e figura di spicco del clan Cappello.
L’autopsia sul corpo di Salvo si è svolta a Milano, dove detenuto in regime di alta sicurezza ma non sottoposto al carcere duro, è morto in ospedale a seguito di quelle che sarebbero state complicanze sopraggiunte dalla frattura del femore. Per conoscere l’esito dell’esame autoptico, disposto dalla magistratura meneghina, sarà necessario attendere almeno 90 giorni. È il tempo tecnico necessario per il deposito della relazione medico legale disposta dalla magistratura requirente.
L’inchiesta aperta: nessun indagato
Intanto, secondo quanto trapelato dal capoluogo lombardo, l’indagine in corso non vedrebbe né indagati, né ipotesi di reato. La famiglia del boss è assistita dagli avvocati Giorgio Antoci e Eugenio Rogliani.
I dubbi sulla morte di Salvo restano legati non solo alle circostanze cliniche del decesso – una frattura del femore per l’appunto – ma anche al suo ruolo di primo piano nell’organizzazione mafiosa catanese. La sua morte è passata tutt’altro che inosservata.
I Cappello e il rapporto con i Santapaola
Il clan Cappello, di cui Salvo era uno dei capi storici, è sempre stato una realtà criminale distinta da Cosa nostra. La sua forza e la sua influenza, infatti, sono state riconosciute anche dai Santapaola-Ercolano, teoricamente rivali ma di fatto rispettosi di tale compagine criminale.
Le uniche frizioni tra Cosa Nostra e i Cappello, anzi, sono dovute proprio all’attività del gruppo di Salvo, che è entrato in guerra con la compagine ennese a Catenanuova. Qui un figlio di Salvo, Gianpiero, e un ex genero, Filippo Passalacqua, compirono una strage, nel luglio del 2008, eliminando colui che era ritenuto il referente del clan di Enna.

