In Italia la quantità di premi letterari è abnorme, ai limiti del censibile. Lo storico della letteratura Gian Carlo Ferretti, massimo studioso dell’editoria italiana contemporanea, nell’autobiografia intellettuale “Il marchio dell’editore”, annotava che i premi sono troppi, “chiacchierati, raramente premiano chi se lo merita, e spesso non servono soltanto alle fortune dei premiati, ma anche ai giochi di potere dei giudici e degli editori”.
L’ossessione del Premio
Quella del premio letterario è quasi un’ossessione, un connotato della narrativa italiana. E dire che nella giostra dei premi, “non hanno mai vinto il premio Strega Gadda, Pasolini, Palazzeschi, Sciascia, Calvino”.
Le premiazioni mancate non impediscono che i premi letterari restino un irrinunciabile veicolo promozionale delle grandi case editrici e che nessuno penserebbe mai ad abolirli.
Lo “Strega” e l’amichettismo
In una storia punteggiata da scandali, si colloca il premio più celebre, lo “Strega”, nato, è il caso di ricordarlo, nel secondo dopoguerra, nel salotto letterario di Maria Bellonci, per dare voce alla nuova coscienza sorta durante la Resistenza. Il primo vincitore fu Ennio Flaiano con “Tempo di uccidere”, nel 1947.
Nell’anno di grazia 2024, ha fatto discutere il record di titoli proposti alla giuria, che in pochi mesi ha dovuto leggere, e non per divago, ben 82 libri; e già prima che fossero selezionati i dodici candidati alla LXXVIII edizione, circolava il nome del vincitore, anzi, come si sussurra a voce alta, della vincitrice, tanto che si preconizza un possibile caso di amichettismo, neologismo coniato dallo scrittore palermitano Fulvio Abbate, che ironizza sui criteri di selezione.
Il crollo delle certezze
Quel che interessa i veri lettori, quelli che i libri li comprano, è se un prestigioso premio letterario li rappresenti, o sia una farsa; e quel che dovrebbe interessare anche gli editori, è se danneggi l’immagine della letteratura italiana, piuttosto che promuoverla, soprattutto a livello internazionale.
La letteratura non sfugge al crollo delle certezze che oscura l’orizzonte sociale e culturale del nuovo secolo; in “Scritture a perdere”, Giulio Ferroni descriveva già il paradosso “di una letteratura che si moltiplica e contemporaneamente arretra, assediata dall’impero dei media, dalla vacuità della comunicazione, dalla degradazione del linguaggio e della vita civile”.
Le linee portanti della cultura del secondo Novecento hanno toccato un punto di non ritorno, smarrita la continuità con le ideologie e i modelli di vita che erano i presupposti di quella società giusta e felice alla quale aspiravamo.
Il cambiamento di genere
Tutto questo, tra premi e festival, kermesse e talk show, come si riflette nel campo letterario? Con il proliferare di generi sempre meno introspettivi e sempre più futuristici. Assistiamo al trionfo del giallo, che non impegna la mente e fornisce soluzioni in un mondo che non ne ha; poi, delle autobiografie da studio televisivo, che alimentano la curiosità rispetto alle vite degli altri.
È in espansione il genere consolidato della fantascienza, che ben prima che le sue iperboliche ipotesi venissero confermate, e spesso sopravanzate, dalla tecnologia, immaginava macchine e scenari avveniristici.
Gode di buona salute anche il sottogenere letterario apocalittico, fondato sui temi come fine del mondo e umanità azzerata dalle peggiori catastrofi. La narrativa apocalittica continua a raffigurare con successo un mondo distopico, proprio come accadeva nei romanzi della prima metà del Novecento di un Orwell o di un Huxley.
In un mondo nel quale la letteratura e i suoi derivati più diretti, cinema e televisione, animano lo show business, anche fantasy e horror sono in ascesa. Il vagare attraverso spazi deserti di eroi soli e disperati, o minacciati da oscuri incubi, fa apparire meno gravi i problemi del tempo presente e risponde al bisogno di miti.
Infine, impera la literary fiction, con le ricadute sull’intrattenimento di massa. La fama autoriale si conquista soprattutto col consenso diffuso, grazie ai followers, e, come scrive Gianluigi Simonetti nel recente saggio “Caccia allo Strega”. Anatomia di un premio letterario, mediante “le riduzioni televisive e
cinematografiche, la rimediazione su piccolo e grande schermo, gli adattamenti teatrali, le appendici narrative podcast e fan fictions”.
La “macchina” del romanzo contemporaneo
Esiste una “macchina” del romanzo contemporaneo, messa in moto dalle “spregiudicate tecniche del marketing editoriale (e dell’autopromozione autoriale)”. In un pamphlet del 1931, Il senso della letteratura italiana (per chi volesse leggerlo, è stato appena ripubblicato da Aragno), il celebre critico letterario siciliano Giuseppe Antonio Borgese individuò il doppio aspetto, uno mistico e trascendente, l’altro negativo e ateo, della nostra letteratura, una “formazione sui generis, espressione di un animo nazionale solitamente diviso fra due passioni ugualmente radicali, di cui l’una è l’esaurimento dell’altra. L’una è un’aspirazione irrefrenabile verso l’assoluto, l’altra è un sentimento meno profondo dell’infinita vanità del tutto”.
Nonostante questa doppia anima, la letteratura italiana “mirò sempre al maestoso, al definitivo, al sacro”; vanta nobili radici, tutte da riscoprire.