L'altra Palermo - Live Sicilia

L’altra Palermo

Palermo, l'altra Palermo. Quella che pochi conoscono, se non nei racconti di qualcuno di cui ormai non sanno più nulla.

PALERMO – Il salone era ampio. Quel tavolo, apparecchiato in fretta e furia, manteneva comunque l’eleganza di chi non lascia nulla al caso. Mi trovavo in una zona residenziale di alti palazzoni del quartiere San Lorenzo. E intanto pensavo che vivere lì per i palermitani che avevo conosciuto fino a quel momento a Baddarò, poteva quasi essere un lusso.

Mi chiesero dove vivessi. Io, come molti studenti, non avevo mai vissuto lontano dal cuore dei mercati e delle rovine del centro storico. “Ricordo solo qualche domenica a Ballarò, quando da bambino accompagnavo mio padre a fare la spesa la domenica. Non ci metto piede da trent’anni” ammise il padrone di quella casa di periferia, che poco aveva di periferico.

Allora mi chiesi come fosse possibile, vivere una vita intera senza avere negli occhi il balenare delle luci sopra le bancarelle, quando i giorni si fanno più corti. Luci a illuminare quel fiume di gente, ogni sera, che da sei mesi ormai pare Natale. Senza camminare, evitando i rifiuti e le pozze lasciate dai pescivendoli, quando ormai la giornata è finita e aspetta solo la tregua dell’alcol delle taverne. Senza aver mai passeggiato la domenica mattina lungo via dell’Alloro, con l’incertezza degli occhi all’insù che avevi visto durante la settimana solo sulla faccia di qualche turista incredulo.

Senza aver gustato il sapore agrodolce di una lingua che non conosci. Che arriva sempre prima del suono della tua sveglia, e che ti lascia nel sonno delle coperte con l’immagine di una bancarella vuota, perché ancora non hai capito che cosa ci stiano vendendo. Melanzane? Zucchine? A un euro? Quell’uomo seduto davanti a me, non aveva forse mai visto l’esplosione e le fiamme, non aveva mai provato il terrore che avevo vissuto quella notte in cui un’auto veniva ridotta in cenere. Né lo stupore di fronte alla ricostruzione del proprietario, che sintetizzò il fatto con una rapida autocombustione.

Forse non avrebbe mai provato la stessa rabbia per quel cavallo che ogni giorno vedevo, mentre salivo o scendevo le scale di casa, da una finestra su una delle innumerevoli stalle nascoste sotto i balconi dei cortili interni, dove saliva l’odore acre di una normalità impassibile. E il panettiere di cui non si conosce neanche il nome? Avrebbe mai suonato al suo campanello per riportargli le chiavi dell’auto dimenticate in negozio? Avrebbe mai visto uno sconosciuto vendere la propria merce di seconda mano appoggiata su un panno bianco steso sopra la macchina di un altro? Come glielo dici che quella è la tua macchina? Che non gli appartenesse già doveva saperlo in qualche modo.

Sentirà mai per quei vicoli, l’odore dei cibi d’Africa, e quello delle arrostute che gli stessi africani hanno preso ad accendere per strada, in quel continuo oscillare delle contaminazioni? L’uomo che mi stava davanti aveva ormai finito il suo piatto e il suo pranzo. Aveva ormai una famiglia e un lavoro che non lo avrebbero portato mai a ficcanasare altrove.

Togliendo le ultime posate dal tavolo, tornarono alla mente le pagine di un libro che avevo finito di leggere qualche giorno prima. “Marsiglia – diceva – non è un posto per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora, ciò che c’è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è già in pieno dramma. Un dramma antico dove l’eroe è la morte. A Marsiglia anche per perdere bisogna sapersi battere”. Chissà se quell’uomo che già beveva l’ultimo sorso del suo caffè sarebbe riuscito a vedere altro che Palermo in quelle righe. Io non potevo fare a meno.


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