Un antico detto siciliano recita: “Testa che non parla si chiama cocuzza”. Le zucche silenziose sono quelle che servono a chi – in questo Paese – ha un preciso interesse a non fare funzionare la più importante macchina di libertà che la cultura umana abbia saputo concepire dalla sua nascita. Avrete compreso che stiamo parlando della Giustizia.
Giocando con le idee, avevo proposto di abolire il denaro contante. Le reazioni a quella proposta (nel piccolo microcosmo sociale che il web sa incarnare) mi hanno permesso di verificare come sia avvertito un aspetto così centrale del nostro vivere collettivo. La domanda ricorrente è infatti sempre e solo quella: “A cosa può servire una società in cui si commettono meno reati se, per crearla, perdo la possibilità di sentirmi libero di fare ciò che voglio?”. Alcuni pensano che ogni restringimento degli spazi di libertà generi ingiustizia. Altri ritengono, viceversa, che vi possa essere reale libertà solo in un sistema in cui si garantisce un’assai attenta Giustizia.
Si tratta di un problema molto antico, ma che si pone come caposaldo filosofico di ogni consorzio umano. Per questo ho parlato di “patto sociale”, ossia di una specie di gioco (non appaia prosaico questo accostamento) le cui regole fingono l’impossibilità di fare alcune scelte per permettere al sistema di vivere la sua “normalità”. Da questo “nascondino” sociale, però, la Giustizia ne esce con le ossa rotte. Talleyrand affermava che vi sono cose più gravi dei delitti (anche di quelli più efferati e sanguinari) e queste cose più gravi si chiamano errori. La ragione di questa idea sta in ciò: il delitto ha un suo fine ed un suo inizio; l’errore si reitera senza fine. Il sistema italiano della giustizia è governato nell’errore. Volete un esempio? Eccolo…
Pochi sanno che in Italia si è ormai diffusa una pratica assai onerosa per le pubbliche finanze. La chiamano “gratuito patrocinio”. In altre parole, un imputato che non ha i mezzi economici può scegliersi un legale che sarà pagato dalla collettività.
Fin qui tutto bene, anzi, un bel principio per un Paese che vuole definirsi civile. Accade, però, che la maggior parte dei fruitori del “gratuito patrocinio” sono soggetti (aventi numerose pagine di precedenti penali) i quali, dal delitto, traggono la loro fonte di reddito non dichiarato. A questi assai numerosi soggetti è come se lo Stato dicesse: “Continua pure a delinquere, tanto l’avvocato te lo pago pure io…”
Di fronte a questo bel gioco sociale – ditemi – deve il Giudice solo applicare la legge e starsi zitto?
Si: il giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, deve applicare la legge e limitarsi a questo, restando dentro i suoi limiti.
Ovviamenti da comune cittadino può, come chiunque altro, esercitare il diritto di critica nei confronti di chi legifera, magari sollecitare i suoi rappresentanti presso il potere legislativo perché correggano ciò che ritiene sbagliato o addirittura proporsi egli stesso come possibile rappresentante. In questa e solo in questa forma la sua eventuale esperienza di “addetto” potrebbe trovare giusto ed opportuno spazio di espressione. In democrazia funziona cosi: nessuno è a priori più saggio e se chi applica le leggi le potesse anche modellare di volta in volta secondo sua convinzione, al di là della discrezionalità che già la legge stessa gli concede, si creerebbe un gravissimo corto-circuito fra poteri dello stato… a proposito di errori: intelligenti pauca.
P.S. Nel merito specifico: è forse il diritto di difesa, automatica garanzia d’impunitá?
il problema non è il diritto alla difesa,che va garantito anche al peggior criminale, il problema è la macchina dello stato ed anche il modo di legiferare in assenza di autentica cultura. La macchina,pensata per controllare gli onesti, in presenza di migliaia di controlli sui furboni,arranca o si inceppa. L’assenza di cultura genera errori legislativi che si ripetono all’infinito. Basta pensare alle leggi di stabilità con un articolo e 1600 commi. Illeggibile per chiunque. E tuttavia è legge dello stato, che per principio ogni cittadino è tenuto a conoscere. E se la viola può anche commettere un reato. E se ha la disgrazia di essere un piccolo impiegato o un operaio, l’avvocato se lo dovrà pagare a costo di mandare in rovina la famiglia. Se invece è un pluripregiudicato evasore totale in quanto il guadagno da delitto non si dichiara,avrà il gratuito patrocinio. Che, per chi non lo sapesse, costa ai contribuenti centinaia di milioni di euro. Ecco a cosa si riferisce il dr. Matassa quando parla di “nascondino sociale”.
Quindi, tornando alla domanda iniziale, cosa dovrebbe fare il giudice? Non applicare la legge? Applicarla, ma correggendola? Comportarsi diversamente da qualsiasi altro cittadino che rileva un errore nella macchina dello Stato?
Molte volte le leggi sono frutto di intenzioni criminali…ma il giudice non è Dio, è sottoposto alla legge. Se, sol perchè una legge si ritiene ingiusta, il giudice avesse la possibilità di non applicarla, sa che diventerebbe l’ordinamento?
Quindi, tornando alla domanda finale, il giudice deve applicare senz’altro la legge, ma non deve stare zitto, ma contribuire a cambiarla, sbandierando le storture e le ingiustizie che contiene…
Costruire un regime governato dagli operatori della Giustizia non garantisce giustizia al Cittadino.
L’unica garanzia è la totale libertà del Cittadino di fare qualunque cosa non danneggi altri.
Solo nel territorio di confine fra le libertà di due individui si può ricorrere ad un arbitrato fondata sul principio della massima garanzia per entrambi. Soprattutto quando uno dei contendenti è reso più forte da particolari attribuzioni di potere.
Starà poi all’arbitro individuare ed applicare, secondo un senso “oggettivo” di equità, una decisione che risolva il conflitto con soddisfazione equamente distribuita dei contendenti.
Questo principio dovrebbe governare sia i procedimenti civili (controversie) che quelli penali (processi). Se venisse effettivamente applicato ai processi si supererebbe, finalmente, il concetto della “punizione del reo”, sostituendolo con il più antico, ma sempre auspicabile concetto della “rifusione della sostanza del danno causato” (attenzione: non rifusione monetaria, ma compensazione della sofferenza indotta).