L’esperimento gialloverde con due diversi populismi al governo? “Un fallimento”. Lo dice – senza se e senza ma – la politologa Sara Gentile, che allo studio del momento populista ha dedicato più saggi. L’ultimo in ordine di tempo riguarda il capo dell’Eliseo: “Macron Bifronte. La Francia di Macron fra populismo e sconfitta della gauche”. Attenta osservatrice della vicende transalpine, fa la staffetta tra l’università di Catania – dove insegna Analisi del linguaggio politico e Politica comparata internazionale – e il Cevipof di Sciences Po di Parigi.
Professoressa, il fallimento dell’esperimento gialloverde, unico governo populista in una nazione dell’Europa occidentale, come va valutato?
“Partiamo dall’enunciato di Gaetano Mosca in merito al principio fondamentale della capacità di coordinazione propria di qualsiasi esecutivo. Un elemento che avrebbe potuto armonizzare le differenze nell’esecutivo, fornendogli compattezza, ma che è evidentemente mancato. Chiaramente, in assenza di ciò, qualsiasi compagine è destinata a sbriciolarsi. Se poi si aggiunge che in questi quattordici mesi i due partner non hanno prodotto politiche adeguate rispetto alle richieste del Paese reale si arriva immediatamente al fallimento”.
Fallimento, appunto. Quali sono le cause?
“Va da sé, le cause sono tantissime. A partire dal fatto che i Cinque stelle non sono mai riusciti a istituzionalizzarsi. Il movimento-partito, cioè, non è riuscito a stabilire un rapporto serio con le istituzioni. Senza uno sviluppo adeguato, qualsiasi forza, sia essa di centro, destra o sinistra, si espone a delle fragilità. Le porto un esempio. La mancata istituzionalizzazione del Partito comunista francese, lo ha reso a tutt’ora piccolissimo, quasi un gruppo. Le scelte varate invece nel 1944 da Togliatti, hanno contribuito affinché il Pci si ponesse con un senso di lealtà diffusa verso le istituzioni, cosa che poi ha reso possibile quella crescita solida nota a tutti, facendone un vero e proprio partito di massa”.
Il Cinque stelle dunque come soggetto involuto?
“Esattamente; esso non è riuscito ad adeguarsi alle sfide poste dal ruolo istituzionale. Faccio un altro esempio, quello di En Marche di Macron, che nasce da una effervescenza popolare, metà movimento, metà partito che ha permesso l’elezione di Macron all’Eliseo. Ecco, sia pure tra le contraddizioni proprie di quel movimento, l’essere divenuto maggioranza presidenziale ha favorito quella naturale evoluzione che il M5s non ha conosciuto”.
Il problema della Lega probabilmente è stato l’eccesso di solidità attorno a un leader dai toni spesso aggressivi, non trova?
“Giusto. A monte, Salvini ha rivoltato come un calzino il Carroccio, trasformando la Lega da partito etno-regionalista a soggetto politico nazionale. E ciò è avvenuto, penso al caso siciliano e del Sud in genere, attraverso dei passaggi organizzativi evidenti, con la fondazione di sedi, il rinnovamento del personale politico e con l’invio di uomini fidati del segretario che hanno rimodellato le strutture e le alleanze sul territorio”.
Tutto ciò come ha influito sull’azione di governo?
“Tra i due alleati, quello che aveva meno consensi in termini di voti, una volta al governo, ha stritolato e gambizzato i cinque stelle. Salvini ha prosciugato il mare pescoso del consenso su un registro che è xenofobo e di estrema destra. Mettiamola così: sono le contraddizioni del M5s accompagnate alle scelte di Salvini ad aver prodotto i due decreti sicurezza”.
Cosa intende?
“Declinare tutte le politiche del governo sul registro dei migranti, come è stato fatto fino all’ultimo, quale estremo pericolo per la Nazione, è servito solamente a mettere in ombra tutte le inadempienze circa i veri problemi del Paese. Persino la rissosità costante dei due partner è servita abilmente, perché ha permesso di fornire la rappresentazione di un governo che al suo interno mettesse assieme i due poli della maggioranza e dell’opposizione. Tutto ciò ha permesso al senso comune dell’italiano medio, desideroso da sempre – e la storia ce lo insegna – dell’uomo forte, di venir fuori”.
Il ruolo del premier dimissionario Giuseppe Conte in tutto ciò?
“Un ruolo del tutto singolare, guardi. Sarebbe dovuto essere l’ago della bilancia, ma di fatto è stato al traino del suo ministro dell’Interno. Il che, in un governo repubblicano, non dovrebbe mai avvenire, appunto perché il premier ha un ruolo preciso. Che non è solo quello di armonizzare, ma soprattutto di guidare. Così avviene persino nei regimi semipresidenziali. Nella costituzione francese, nonostante il presidente sia il primum movens, il primo ministro ha sempre il compito di orientare le scelte dell’esecutivo, secondo il testo della Costituzione, quindi secondo la Costituzione formale”.
Nel discorso al Senato, Conte ha vestito gli abiti del politico o del giurista?
“Io sono molto scettica rispetto ai pentimenti fatti a posteriori, perché, per un anno e due mesi, Conte ha avallato anche scelte pesanti e, secondo il mio giudizio e di altri, lontane dallo spirito democratico. Ecco, se la vogliamo guardare anche dal punto di vista squisitamente giuridico, c’è che il primo e secondo decreto sicurezza sono sicuramente fuori dal dettato costituzionale e dagli accordi internazionali sottoscritti dall’Italia. Anche dal punto delle sue competenze specifiche, quindi, ha toppato. In fondo, se affermi che gli immigrati in mare non debbano essere salvati, è perché non riconosci loro lo status di persona e li riduci a oggetto. Il che è gravissimo”.
Veniamo ai nuovi scenari. Quello che vedrebbe assieme Pd e M5s. Cioè, una realtà figlia dell’arco costituzionale e nel pieno solco della tradizione europeista e una forza populista che non nasconde profonde critiche verso gli assetti e le politiche dell’Unione. Un incontro possibile e a che prezzo?
“Questo accordo tanto ipotizzato, che però vede i Cinque stelle non chiudere ancora definitivamente le porte a Salvini, ci dice qualcosa sullo stesso M5s. Che non hanno cioè chiara la lettura reale dei problemi della nostra società e di cosa sia la forma democratica. E questo perché non hanno, fra l’altro, un ceto politico adeguato”.
I paletti posti da Di Maio e Zingaretti cosa rappresentano?
“Le condizioni poste da Zingaretti sono molto chiare. Tant’è che qualcuno ipotizza che il segretario del Pd ponga queste condizioni affinché l’accordo sia impossibile e quindi si debba andare al voto. Dall’altra parte, invece, Di Maio ha fatto un elenco da libro dei sogni. Se cerchi un accordo di legislatura, non puoi mettere di tutto, dalla salvezza della Terra al salario minimo. Per realizzare quel tipo di programma, ci vorrebbero almeno due legislature. A che serve una lista simile? A nulla”.
Da qui a martedì arriverà la risposta. Tuttavia uno dei temi posti dal populismo, quello del controllo dei flussi migratori, resta ancora sul piatto. Esiste una modalità per normalizzare la questione, evitando derive sospette?
“Nel momento in cui vuoi affrontare il problema migranti, se vuoi uscire dallo schema populista, non devi proporre indiscriminatamente l’idea dell’accoglienza tout court. Semmai una politica seria che badi alla capacità d’accoglienza, rivedendo pure il nostro approccio con l’Europa, perché non c’è dubbio che, ultimamente, la Ue ha taciuto o si è girata dall’altra parte o ha preso posizioni che non hanno badato a un’evoluzione seria del problema. Diciamocelo chiaramente, quello dei migranti non è un problema congiunturale. È evidente che – come diceva il sociologo Franco Ferrarotti –, almeno tre decenni fa, da quando le periferie del mondo si sono messe in cammino verso il centro, questa fiumana non può più fermarsi. Bisogna quindi capire quale sia il modificarsi della geopolitica attuale. E non è un problema da poco”.
Il momento populista finisce con il collasso dell’esperimento italiano?
“Nella panoramica attuale, i populismi dei paesi scandinavi o dell’Olanda, delle democrazie nordiche hanno indotto noi studiosi a rivedere i nostri paradigmi. Perché si tratta di democrazie che hanno vissuto in maniera assai attenuata la crisi finanziaria, la loro disoccupazione ha numeri risibili e lo stato sociale ha un piede ancora forte. Nonostante ciò, lì esistono espressioni livorose e in crescita di partiti o movimenti populisti”.
Appunto, perché?
“Abbiamo definito questa ondata populismo patrimonialistico. Vede, mentre quelli dei Paesi mediterranei traggono origine dalla marginalità di ampi strati sociali pauperizzati dal vento della globalizzazione e dall’arretramento dello stato sociale, da quelle parti c’è invece la volontà di difendere la crescita, e quindi il patrimonio. È una protesta che parte dagli strati più, o mediamente, privilegiati della popolazione a difesa del patrimonio reale, un reddito, e di quello simbolico, lo status di uomo bianco agiato, che non vogliono condividere con nessuno, a partire dai migranti. Anche l’Austria, che non è una democrazia nordica, afferma di non volerli assolutamente. Quindi la difesa delle sostanze materiali, e del patrimonio simbolico che è da proteggere perché ritenuto elemento fondante della propria specificità culturale”.
Stando a Olberto Orioli del Sole24Ore, queste caratteristiche sono fatte proprie in Italia dal versante Nord della Lega. Ciò detto, qual è quindi il futuro del populismo in Europa?
“È destinato a crescere, sicuramente, io ritengo, anche mutando ceti di riferimento, strategie e alleanze. Per questo occorre un argine forte e consapevole ad esso nei singoli Stati e da parte della Ue”.