Lo chiamavano Totò

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17 Febbraio 2011, 07:23

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La condanna definitiva per Salvatore Cuffaro a sette anni di carcere ha innescato opposte e spesso scomposte reazioni. Qualcuno con eccessi di cattivo gusto ha festeggiato, inscenando una manifestazione davanti a palazzo d’Orleans, trionfo di cannoli e ferocia. Qualcun altro, fulminato dalle parole e dal comportamento di Cuffaro prima di presentarsi a Rebibbia, ne ha esaltato le virtù civiche, disegnando il profilo del capro espiatorio che paga un prezzo spropositato, vittima sacrificale delle colpe di tutta la classe politica siciliana.

Ma ci sarà pure un modo per leggere questa sentenza evitando demonizzazioni e santificazioni. Per farlo, paradossalmente, bisogna dimenticare l’epilogo di questa storia. Bisogna dimenticare le ultime parole di Cuffaro, il suo comprensibile turbamento, l’inevitabile dolore della sua famiglia, ultima scena di un processo che sicuramente ha avuto uno svolgimento corretto nella contrapposizione tra accusa e difesa, tra pubblici ministeri e imputato. Più interessante è tentare di leggere cosa resta di questo processo, nei comportamenti sociali e pubblici della Sicilia.

Il primo elemento è il fatto che Salvatore Cuffaro, il 28 maggio 2006, sia stato rieletto alla presidenza della Regione con il 53 per cento dei consensi. A quella data, Cuffaro era già imputato nel processo che metteva sotto accusa, nella fattispecie del favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra, la sua rete di clientele, i suoi rapporti con l’imprenditore Michele Aiello, le informazioni riservate su indagini e intercettazioni trasferite a Mimmo Miceli e, attraverso questi, al boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro. Nonostante queste imputazioni, Cuffaro era stato ricandidato dal centrodestra e rieletto dalla maggioranza degli elettori siciliani. Nella primavera del 2006, quindi, né i partiti della sua coalizione, né la metà dei siciliani avvertivano l’imbarazzo di ripresentare un politico pesantemente sospettato e formalmente imputato.

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Il secondo elemento riguarda la sentenza di primo grado: il 18 gennaio 2008 Salvatore Cuffaro viene condannato per favoreggiamento semplice. Le dichiarazioni di Cuffaro sono incredibilmente soddisfatte, il verdetto viene interpretato quasi come un successo della linea difensiva rispetto alla richiesta dei pubblici ministeri che avevano chiesto la condanna per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Naturalmente Cuffaro non pone nemmeno per ipotesi l’opportunità di sue dimissioni dalla carica, di fronte a una sentenza a cinque anni di carcere. A caldo dichiara: “Resto al mio posto”. Ci vorranno alcuni giorni prima che divenga evidente che la condanna, anche per favoreggiamento semplice, comporta l’interdizione dai pubblici uffici. E ci vorrà la foto di Cuffaro con un vassoio di cannoli in mano per rendere palese questa incongruenza. Ebbene, otto giorni dopo il verdetto, l’Assemblea regionale siciliana rinnova la sua fiducia (53 voti a favore contro 32) al presidente della Regione. Solo l’evidenza dei fatti e la certezza di una destituzione d’ufficio convincono Cuffaro a dimettersi due giorni dopo il voto di fiducia.

Terzo elemento: nonostante l’interdizione dai pubblici uffici (che ne ha provocato la decadenza anche da deputato regionale) nonostante le dimissioni da governatore, nonostante la sentenza di primo grado, nell’aprile 2008 Cuffaro viene candidato ed eletto al Senato nelle liste dell’Udc, nel collegio Sicilia. Insomma, il partito di Pierferdinando Casini non si pone interrogativi sull’opportunità politica di rimetterlo in lista e i suoi elettori non si pongono la questione se votare un ex presidente della Regione costretto a dimettersi per un giudizio che, al di là della decisione definitiva, svela comportamenti personali di enorme gravità politica e morale.

In definitiva, fatta salva la comprensione umana per Salvatore Cuffaro detenuto, tutta la vicenda lascia interrogativi sulla sensibilità di un universo politico ed elettorale che sembra indifferente a ogni scrupolo etico, al di là di ogni ragionevole dubbio. Se questo è stato, come dice qualcuno, il “cuffarismo”, è semplicistico pensare che, senza Cuffaro, ora questo sistema in Sicilia non esista più. Forse ha solo cambiato nome e volto, ma non ha perso i suoi antichi vizi.

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17 Febbraio 2011, 07:23

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