PALERMO – Da trent’anni non c’era un omicidio eccellente di mafia a New York. Alle 21 di ieri sera, le 2 in Italia, sotto i colpi di un killer solitario è caduto Frank Calì. Aveva 53 anni. Gli hanno sparato almeno sei colpi davanti alla sua abitazione di Staten Island. Prima di scappare, l’assassino lo ha travolto con l’auto blu su cui viaggiava. Alcuni testimoni oculari raccontano del pianto straziante dei parenti abbracciati al cadavere.
Calì aveva scalato le posizioni criminali fino a diventare il capo del clan Gambino, una delle cinque potenti famiglie mafiose newyorkesi assieme ai Genovese, i Lucchese, i Colombo e i Bonanno. Il bastone del comando lo aveva ricevuto dall’anziano boss Domenico Cefalù, detto “the Greaseball” (palla di grasso), emigrato alla fine degli anni ‘70 negli Stati Uniti. Di Cefalù si era occupato Giovanni Falcone, scoprendo il suo ruolo di “chimico” nei grandi affari della droga lungo l’asse Palermo-New York. Da una parte gli Inzerillo, gli Spatola e i Di Maggio di Uditore, Passo di Rigano e Boccadifalco; dal’altra, sul versante americano, i Gambino e gli Adamita. La morfina veniva raffinata in Sicilia per riempire le piazze americane di eroina purissima.
Nel 2008 Cefalù e Calì (che avrebbe scontato una condanna a sedici mesi) furono arrestati dalla Squadra mobile palermitana nell’operazione Old Bridge. Gli investigatori avevano scoperto che era stato riattivato il vecchio ponte dei traffici illeciti. Oggi Calì viene piazzato al vertice del clan. Franky boy ha fatto la gavetta. Il primo incarico importante era stato quello di capo decina della 18° Strada di Brooklyn. Era subentrato al boss “Jackie” D’Amico, che a sua volta aveva preso il posto dei fratelli John e Joe Gambino.
Già nel 2008 in alcuni scatti fotografici, però, gli investigatori avevano cristallizzato l’ascesa di Calì. Gli uomini del Servizio Centrale Operativo, della Squadra Mobile e del Federal Bureau of Investigation ricostruirono alcuni incontri del 2003 Le famiglie Gambino, Bonanno, Genovese e Lucchese in America avevano fatto soldi a palate prima con la droga e poi infiltrandosi nei grandi appalti, nelle commesse pubbliche e nell’alta finanza. La mafia siciliana aveva bisogno di dialogare con loro.
E così Bernardo Provenzano inviò i suoi emissari oltreoceano. Si affidò a Nicola Mandalà, 40 anni, rampante boss di Villabate, e Gianni Nicchi, 27 anni, u picciutteddu che il padrino Nino Rotolo volle accanto a sé nel mandamento di Pagliarelli. Giovani e affidabili, ma pur sempre giovani. E così i poliziotti avrebbero scovato le fotografie che li ritraevano, con ragazze al seguito, a bordo di lussuose Limousine o al tavolo di prestigiosi ristoranti. Tutto a spese di Cosa nostra.
Qualche tempo dopo ci sarebbe stata una seconda missione. Con Mandalà, ma senza Nicchi. Nel frattempo, infatti, era scoppiata di nuovo la grana degli scappati. Salvatore Lo Piccolo, boss di San Lorenzo, pianificava il rientro di coloro che erano fuggiti in America per scampare al piombo corleonese nella guerra degli anni Ottanta. Rotolo, padrino di Nicchi, degli scappati non voleva neppure sentire l’odore.
Ed, invece, a partire dalla fine degli anni Novanta i sopravvissuti alla mattanza mafiosa sono via via rientrati. Per primi gli Inzerillo di Passo di Rigano.