Marina Ripa di Meana | Non è stato ‘suicidio’

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14 Gennaio 2018, 18:20

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In una canzone di tanto tempo fa, Fabrizio De André cantava di Marinella, dolce e amorevole immagine di un amore effimero che, chissà come, sul fiume scivolava, per poi morire. Sarà stata colpa di quello stesso nome e di un certo destino ad esso legato; sta di fatto che Marina Ripa di Meana, poco prima di morire, è scivolata su un fraintendimento lessicale, involontariamente e comprensibilmente date le sue condizioni di estrema sofferenza.

È morta sulla ribalta, Marina, dove spesso era vissuta sotto la bandiera della trasgressione. E nel video che ha voluto diffondere qualche giorno prima di morire ha detto: “A Maria Antonietta Farina Coscioni ho manifestato l’idea del suicidio assistito in Svizzera. Lei mi ha detto che potevo percorrere la via italiana delle cure palliative con la sedazione profonda”. Un’associazione imprecisa. Appunto, comprensibile, ma che altri hanno cavalcato mediaticamente, generando una confusione pericolosa.

Perché non c’è alcuna trasgressione nell’affidarsi, alla fine della vita, a un sapere medico fatto non solo di necessaria competenza clinica, ma anche di orecchie che sanno ascoltare e di cuori capaci di costruire importanti relazioni di sostegno, intraprendendo la strada assistenziale delle “cure palliative”.

Sono state proprio le due ultime parole, “sedazione profonda”, a far da trappola. La “sedazione profonda” consiste nella somministrazione continua di farmaci con l’intento di ottenere un sonno profondo, abolendo, reversibilmente, la coscienza. I farmaci generalmente utilizzati (midazolam, ed altri) appartengono alla stessa famiglia dei normali tranquillanti e degli induttori del sonno, le benzodiazepine. Comprensibilmente, questa pratica terapeutica non è eutanasia, né suicidio, né omicidio del consenziente, operazioni per le quali i mezzi usati e le intenzioni di chi li pratica sono di natura ben diversa; non ne è nemmeno il surrogato, la maniera “italiana”, o “all’italiana”, di camuffare con ipocrisia un omicidio.

Piuttosto, è vero il contrario: quando l’ultimo tratto di strada si dimostrasse troppo doloroso, proprio per non cedere alla tentazione di cercare e trovare la morte, facendone lo strumento definitivo per porre fine alle sofferenze, si può far in modo che le stesse sofferenze non vengano percepite dalla coscienza, affinché la morte sopraggiunga in modo naturale, a tempo debito, senza né amputazioni né odiosi prolungamenti. Lo si fa “sedando” la sofferenza, non sopprimendo la vita.

Alla fine della vita, c’è uno spazio percorribile che è affidato ad una Medicina non più fatta per guarire, ma per curare ancora, per curare sempre, anche quando la guarigione non può realisticamente più essere perseguita; le “cure palliative” sono questo. Certamente, “dentro” a questo percorso assistenziale può anche – non sempre! – essere compresa la pratica clinica dell’interruzione della percezione sensoriale di un soffrire non altrimenti controllabile, (“incoercibile”, secondo i protocolli internazionali) perché non sensibile alle terapie abituali. Ma la “sedazione profonda”, non è un elemento costantemente presente, o necessario. Non è nemmeno una “scelta”, in senso stretto, poiché si tratta di un’opzione terapeutica che il medico può, in un ben preciso momento della vicenda assistenziale, riconoscere opportuna e indicare al malato e alla famiglia; quindi, secondo un patto terapeutico condiviso, perseguire.

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Alcuni numeri: dall’anno 2000, la ASP di Palermo ha fornito assistenza di cure palliative domiciliari, complessivamente, a circa 22.000 pazienti allo stato terminale, coadiuvata dalle Associazioni Onlus SAMO e SAMOT, legate ad essa da una convenzione; nel solo anno 2017 i nuovi assistiti sono stati 2.225. A questi vanno aggiunti i pazienti ricoverati nei 3 Hospices cittadini (ASP, ARNAS Civico e Ospedali Riuniti Villa Sofia e Cervello), che nell’ultimo anno sono stati, in tutto, 489. La pratica della “sedazione profonda” coinvolge, approssimativamente, il 15% dei pazienti. Il modello assistenziale di cure palliative della ASP di Palermo, in questi anni, ha fatto da volano in tutto il territorio regionale. Per numeri, la Sicilia è, su scala nazionale, seconda solo alla Lombardia.

La legge 38 del 2010, che tutta Europa ci invidia, regolamentando la pratica delle cure palliative sull’intero territorio nazionale, chiarisce anche i termini nei quali tutte le azioni terapeutiche praticabili alla fine della vita, “sedazione” compresa, trovano la migliore collocazione scientifica ed etica. Non è superfluo ricordare che la sua approvazione è avvenuta con un consenso quasi unanime; del resto, la filosofia semplice, umana ed efficace delle cure palliative non ha, né potrebbe mai avere, alcuna connotazione ideologica: non c’è né destra né sinistra, né vessillo radical-laicista, né marchio confessionale; il buon morire è un diritto umanamente trasversale, che riguarda tutti e che a tutti può e deve essere riconosciuto. Ma non tutti lo sanno.

Ancora Marina, alla fine: “Io che ho viaggiato con la mente e con il corpo per tutta la mia vita, non sapevo, non conoscevo questa via. Ora so che non devo andare in Svizzera. Vorrei dirlo a quanti pensano che per liberarsi per sempre dal male si sia costretti ad andare in Svizzera, come io credevo di dover fare. (…) Anche a casa propria, o in un ospedale, con un tumore, una persona deve sapere che può scegliere di tornare alla terra senza ulteriori e inutili sofferenze”. Parole vere, persino solenni; quel “tornare alla terra” poi, pronunciato, per paradosso, proprio nell’imminenza della propria dipartita, sa di umana concretezza, di affidamento alle umane relazioni affettive, quelle autentiche, quelle presenti anche alla fine, quelle che mantengono in vita fino a quando la vita rimane vita, anche nel suo ultimo frammento.

E si può anche scivolare nel fiume, prima di morire, ma chi resta deve sapere che è possibile non scivolare più.

L’autore è dirigente medico dell’Asp di Palermo, Unità Operativa di cure palliative

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14 Gennaio 2018, 18:20

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