Sono vent’anni che li tengono appesi a un palo come due malacarne di periferia. Sono vent’anni che li tengono inchiodati al calvario di un teorema giudiziario senza capo né coda. Ma ieri pomeriggio, finalmente, l’ex generale dei carabinieri Mario Mori e l’ex colonnello Mauro Obinu sono stati assolti, con formula piena, anche in appello. I procuratori di Palermo li accusavano di avere coperto, nel 1995, la latitanza di Bernardo Provenzano, vecchio e sanguinario boss dei corleonesi. Secondo la ricostruzione fatta dal pubblico ministero e avallata poi dal giudice per le indagini preliminari, Mori e Obinu avevano tutte le informazioni necessarie per catturarlo, in quel di Mezzojuso, ma si sono girati dall’altra parte, facendo finta di niente. Segno – ed era questo il sottinteso verminoso – che i due ufficiali avevano da restituire a Provenzano un qualche favore, quasi certamente legato alla famigerata Trattativa tra Cosa nostra e i vertici dello Stato: per esempio, la soffiata che aveva consentito ai carabinieri, nel gennaio del ’93, di arrestare alla circonvallazione di Palermo, nientemeno che Totò Riina, il capo dei capi.
Sia il processo di primo grado sia quello che si è concluso ieri in Corte d’appello, hanno comunque fatto piazza pulita di tutte queste fantasticherie. Le sentenze, pur sottolineando alcune inspiegabili negligenze, escludono il favoreggiamento nei confronti di Cosa nostra. Il che finisce per tagliare ulteriormente le gambe al maxi processo istruito da Antonio Ingroia e lasciato in eredità al pm Nino Di Matteo, due magistrati secondo i quali la Trattativa avrebbe avuto come intermediario principale proprio il generale Mori: sarebbe stato lui ad avviare i colloqui con Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo e portavoce in doppiopetto dei corleonesi; e sarebbe stato lui a sottoscrivere il patto scellerato con la mafia pur di chiudere la tremenda stagione delle stragi.
Il maxi processo – nel quale Mori è ancora imputato, assieme a un buon numero di boss e di autorevoli esponenti delle istituzioni – si trascina, senza onore e senza gloria, da oltre tre anni. E’ un processo che non ha un movente, perché la mafia ha perso e i mafiosi non sono stati salvati; e che non ha prove schiaccianti: l’unico racconto, al quale si sono poi accodati i pentiti della solita compagnia di giro, è quello fatto da Massimo Ciancimino, il figlio pataccaro di don Vito, la cui attendibilità crolla giorno dopo giorno. Mentre girava per giornali e talk-show, portato a spalla alla stregua di Nostra Signora della Verità, il super testimone, presentato urbi et orbi da Ingroia come “nuova icona dell’antimafia”, non si è fatto mancare proprio nulla: ha collezionato due processi per calunnia e ha inanellato una sequela di contraddizioni così lunga che la metà basta.
L’impianto della Trattativa aveva già ricevuto un colpo di maglio nel novembre dell’anno scorso con l’assoluzione di Calogero Mannino: l’ex ministro democristiano, trascinato pure lui sul banco degli imputati, aveva scelto il rito abbreviato e se l’è cavata prima degli altri. Ma con la sentenza che ieri ha liberato Mori dal sospetto di avere traccheggiato con lo stragista Provenzano, stramazza al suolo l’architrave dell’accusa e diventa veramente difficile per la Corte di assise presieduta da Alfredo Montalto reggere per chissà quanto altro tempo la noia di un processo destinato quasi certamente alla disfatta.
Ma una domanda si impone. Sono quasi vent’anni che una corrente, per fortuna minoritaria, della procura di Palermo pesta l’acqua nel mortaio nel tentativo di trovare una regia occulta o, meglio, una responsabilità politica dietro le stragi mafiose del 1992, quelle dove trovarono la morte i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sono quasi vent’anni che l’ala più politicizzata della magistratura palermitana tenta di alzare il tiro nella disperata speranza di trovare quelle complicità e quelle compromissioni che i processi non hanno mai confermato. E sono quasi vent’anni che persone al di sopra di ogni sospetto, come Mannino o come Mori o come Obinu, sono costretti a salire e scendere le scale dei tribunali, a difendersi da accuse infamanti, a pagare fior di avvocati, a patire la gogna dei giornali, a soffrire per l’imbarazzo dei figli o delle mogli, a subire la mortificazione della gente che li incontra e fa finta di non vederli. Si chiama “sindrome dell’appestato”. Chi li risarcirà per tutto il male che gli è piovuto addosso?
Ma dopo vent’anni è forse venuto il momento che qualcuno, al Quirinale o al Consiglio superiore della magistratura, che Sergio Mattarella o Giovanni Legnini o Piercamillo Davigo dica una volta per tutte qual è il confine tra la giurisdizione e la persecuzione, tra la civiltà del diritto e la santa inquisizione. Perché alla base della vicenda Mori ci sarà stata anche una maledetta somma di coincidenze, ma è difficile per chiunque immaginare come un generale dei carabinieri, che pure ha arrestato Totò Riina, possa passare il resto dei suoi giorni nelle spire di un’inchiesta senza fine: si chiude quella per la mancata perquisizione del covo dei boss e comincia quella per la mancata cattura di Provenzano; si chiude il capitolo Provenzano, e si torna in aula per la Trattativa. Altro che medaglia al merito per avere rinchiuso nelle patrie galere il capo dei capi: quel successo ha regalato al servitore dello stato Mario Mori nient’altro che un inferno.