E dài. Tanto diciamo tutto ciò che ci pare, quando, a chi e come vogliamo. Che ragione c’è, per vestire le nostre parole, di pretendere in più anche l’abito della domenica? Potremmo accontentarci e invece no, invece invochiamo la satira, cioè l’abitino raffinato, per rivestire le nostre accuse o i nostri divertimenti. Vediamo perché. Vediamo perché Dario Fo, Vauro, Gene Gnocchi, Sabina Guzzanti, Luttazzi, a volte Marco Travaglio, Forattini e tutti coloro che hanno da esprimere le loro critiche su un fatto o un personaggio e lo fanno con toni divertenti, pretendono di chiamare sempre (sottolineo sempre) satira i loro interventi. Dopo il perché vedremo anche quali sono le circostanze in cui si può parlare di satira. E lo vedremo affidandoci a un consulente d’eccezione, più solido di Dario Fo e degli altri.
Definire satira qualunque intervento graffiante e divertente relativo a chi esercita un potere (anche soltanto quello derivante dalla notorietà) e alla società offre, in teoria, una garanzia. La intoccabilità. Esiste, infatti, una “legge naturale” in virtù della quale “la satira non si tocca”. Non si ritiene giustificata, cioè, la reazione di chi è oggetto di critica seppur sorridente. Definire satira un testo o una vignetta, quindi, garantisce una sorta di impunibilità morale, ma talvolta anche giudiziaria.
Ma perché questa intoccabilità? Non per il diritto di critica, poiché questo è sottoposto alle regole che tutelano la dignità altrui e quindi deve essere esercitato in modo non offensivo. Ma allora perché la satira non si tocca? Perché, anche se offende, non si tocca? Come mai è nata questa “legge naturale”?
Prima di ricorrere al nostro consulente ricordiamo anche una frase che nei millenni ha definito non la satira, ma il suo obiettivo. Prima in latino: ”Ridendo castigat mores”. Traduco per pochi: la satira bastona i cattivi costumi in modo divertente. Questo è stato da sempre e per sempre l’obiettivo della satira, bastonare gli abusi e gli eccessi dei potenti e della società ponendogli addosso una lente deformante o utilizzando un linguaggio corrosivo in vari modi, a seconda del tipo di talento dell’autore satirico (satirista, ma è così brutto che non lo si usa).
Ma perché la satira non si tocca? A chi chiederlo? Abbiamo chiesto al Tempo e lui ci ha dato un consulente: Orazio. Il poeta satirico latino che, insieme con Giovenale, è considerato il padre della satira. A Fo, ci perdoni, mancano ancora duemila anni per acquisire lo stesso credito di immortalità e quindi di credibilità.
Dunque Orazio. Egli, nella sua prima satira scrive: “Ridentem dicere verum. Quid vetat?” che, tradotto, suona così: “Che cosa può vietare di dire la verità ridendo?” Ecco che cominciamo a capire. Capiamo che la satira deve divertire, e lo sapevamo. Capiamo che la satira non si deve vietare, non si tocca, e lo sapevamo. Capiamo anche, e questo non è di conoscenza diffusa, che la satira deve essere la verità. Che le critiche mosse devono, seppur deformanti, corrispondere alla verità. Ecco allora perché non si toccano. Non è la satira come forma di espressione che non si tocca, ma è la verità che ovviamente non si tocca e di conseguenza il suo mezzo di trasporto, cioè la satira. Mamma mia. Vuoi vedere che non sempre ogni forma di parodia o, in genere, di comicità critica che riguardi potenti e società si possa chiamare satira? Vuoi vedere che quanto si può definire satira non è automaticamente tutto ciò che riguarda potenti e società? Chi glielo dice a Fo, a Vauro e agli altri? Chi glielo dice ai loro fedeli lettori? È la verità che non si tocca, ma solo lei.
Nessuno tocchi la satira, dunque. A patto che sia satira, cioè verità che diverta e graffi, maciulli, massacri, irrida, ma nasca dal vero. E su ciò che è o che non è vero il giudizio è sempre difficile, ma noi ci accontentiamo della buona fede. E questa è disposta a orientarsi ovunque perché insegue la verità. Chi non condivide ne parli con Orazio. Tra duemila anni.
Ma c’è una buona notizia: c’è un mondo ancora vergine, intoccato a cui dedicarsi. La mafia, cosa tremendamente seria, non vede i satiristi in azione. Vede soltanto alcune episodiche parodie, come il Johnny Stecchino di Benigni.
Sarebbe una bella novità, invece, se qualcuno avesse il coraggio di aggredire i boss, smitizzandoli con la clava della satira. Con tante intercettazioni sul mercato, partendo quindi dalla verità, non sarebbe difficile, per esempio, irridere qualche feroce mafioso in galera la cui moglie, diciamo, non lo rispetta sino in fondo.
Così, probabilmente, essere onorevolmente mafioso sarebbe più complicato e sentire il “fascino” di Cosa nostra da parte dei più giovani sarebbe meno probabile. E su questa buona notizia autore satirico coraggioso cercasi.