PALERMO – La Procura di Palermo avrebbe voluto arrestare Maurizio Zamparini e sequestrare il Palermo, ma il giudice per le indagini preliminari Fabrizio Anfuso ha respinto la richiesta dei pubblici ministeri.
È clamorosa la notizia che trapela dagli uffici giudiziari. Mentre avanzava la proposta di fallimento della società, anch’essa respinta dal Tribunale civile, la Procura proseguiva le indagini penali chiuse con la richiesta di emissione un’ordinanza di custodia cautelare per Zamparini e altre due persone: il commercialista Anastasio Morosi e per la segretaria Alessandra Bonometti. Secondo l’accusa, il patron friulano meritava di finire ai domiciliari. Il giudice ha motivato il suo “no” con un lungo provvedimento di cui non si conoscono i particolari, ma che sembrerebbe contestare la mancanza delle esigenze cautelari per fare scattare i provvedimenti restrittivi. Pericolosità, inquinamento probatorio e rischio di reiterazione del reato sono i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare. Le recentissime dimissioni di Zamparini dal Consiglio di amministrazione della società avrebbero fatto venire meno le esigenze cautelari. Ma la censura del Gip riguarderebbe anche il merito della ricostruzione dell’accusa.
Il no agli arresti non blocca, però, l’inchiesta. La Procura potrebbe proporre appello – ipotesi su cui i pubblici ministeri starebbero riflettendo – oppure procedere con l’avviso di conclusione delle indagini e l’eventuale richiesta di rinvio a giudizio. La partita, dunque, si sposterebbe in Tribunale.
Fu l’inchiesta penale la prima a partite nel luglio 2017, quando i finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria e della polizia valutaria perquisirono la sede della società in viale del Fante. Sotto accusa finirono otto persone, tra cui Zamparini per riciclaggio, autoriciclaggio, appropriazione indebita, falso in bilancio e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Il tutto aggravato dalla trans nazionalità.
Il cuore delle indagini è la cessione di Mepal, acronimo di Merchandising Palermo, alla lussemburghese Alyssa, riconducibile alla famiglia Zamparini, che ha portato nelle casse dell’Us Città di Palermo 40 milioni di euro, con una plusvalenza da 21 milioni. Soldi che permisero al club rosanero di chiudere in attivo il bilancio. I finanzieri si sono concentrati su tutte le società del Gruppo Zamparini, monitorando passaggi di denaro fino in Cina.
Il marchio venne valutato 23 milioni di euro dal commercialista Anastasio Morosi. Cifra che scendeva a 17 milioni considerato il debito con Unicredit per il contratto di lease back del marchio. Contestualmente su un conto denominato “Riserva straordinaria” fu iscritta “la riserva da conferimento per complessivi 25 milioni di euro”. Sono i soldi che la società contava di iscrivere in bilancio una volta conclusa la cessione del marchio. Secondo i consulenti dei pm, il valore del marchio, al 30 giugno 2014, era di molto inferiore: poco sopra i 13 milioni di euro. Alla stessa data il Palermo chiudeva l’esercizio con una perdita di 27 milioni. Il successivo 5 novembre l’assemblea dei soci deliberava di coprirla utilizzando la “riserva straordinaria”, frutto del valore sovrastimato di Mepal. E così il bilancio presentava un utile di quasi 300 mila euro.
Il passaggio successivo è datato 30 giugno 2016 quando, attraverso la procuratrice speciale Alessandra Bonometti (è la segretaria di Zamparini), l’Us Città di Palermo vendette tutte le partecipazioni di Mepal ad Alyssa. Grazie ai 40 milioni il Palermo avrebbe creato la plus valenza necessaria per sopravvivere.
Il 20 maggio 2016 Zamparini annunciava in Cda di avere chiuso l’operazione “dopo una lunga trattativa” con Alyssa. In realtà si tratterebbe, secondo i pm, di un’operazione “solo simulata”. Innanzitutto perché Alyssa era di fatto amministrata dallo stesso Zamparini. Durante la perquisizione a casa del patron rosanero, il 7 luglio, trovarono una e mail inviata da Bonometti e dalla quale emergerebbe che il capitale sociale di Alyssa (31 mila euro) era posseduto dalla società lussemburghese Kalika di proprietà dello stesso Zamparini.
Nello studio di Morosi, invece, i finanzieri trovano il testo di una e mail in cui si faceva riferimento alla volontà di fare riacquistare al Palermo le quote della Mepal, cederle a un terzo soggetto e infine farle rientrare nel patrimonio della società rosanero.
Nel novembre scorso alle vicende penali si sono innestate quelle civilistiche. La Procura, infatti, ha chiesto il fallimento della società rosanero. Lo scorso marzo Il Tribunale ha dato ragione a Zamparini. Il collegio presieduto da Giovanni D’Antoni, dal giudice relatore Giuseppe Sidoti e dal giudice anziano Raffaella Vacca ha accolto la tesi del Palermo che contestava il buco da 60 milioni riscontrato dai consulenti dell’accusa. Il presidente Giovanni Giammarva, scelto da Zamparini come figura di garanzia si era sempre definito certo della solidità economica del club.
“Le approfondite argomentazioni presentate nel corso della relazione sono, a giudizio del collegio, obiettivamente conducenti rispetto all’insussistenza di uno stato d’insolvenza attuale di Us Città di Palermo”, così scrivevano i periti nominati dal Tribunale.
La Procura non ha fatto appello e il no al fallimento è divenuto definitivo. Una strategia che oggi trova una spiegazione. I pm avevano, infatti, proposto il sequestro in sede penale e le misure cautelari. Ancora una volta, però, hanno incassato un no.