PALERMO – Non tutte le spese, seppure difettino di trasparenza, possono essere bollate come “pazze”. Su richiesta della stessa Procura di Palermo il giudice per l’udienza preliminare ha archiviato l’inchiesta per peculato nei confronti di diciassette ex parlamentari regionali.
Si tratta di Nino Dina, Salvatore Cascio, Giuseppe Arena, Salvatore Cordaro, Michele Cimino, Mario Bonomo, Giovanni Cristaudo, Raffaele Nicotra, Francesco Calanducci, Paolo Colianni, Antonio D’Aquino, Giuseppe Gennuso, Fortunato Romano, Pippo Gianni, Giuseppe Lo Giudice, Orazio Ragusa, Santo Catalano.
È passata la linea difensiva degli avvocati Marcello Montalbano, Francesco Inzerillo, Nicola Granata, Roberto Mangano, Enrico Tignini, Paolo Ezechia Reale, Sergio Monaco, Cristiano Dolce, Stefano Rametta.
Per la vicenda “spese pazze”, relative agli anni dal 2008 al 2012, ci sono già state sentenze di condanna, anche in sede contabile per danno erariale, ma anche assoluzioni e proscioglimenti. Altri processi sono ancora in corso.
Nel capitolo su cui si è ora pronunciato il giudice Walter Turturici era inevitabile che pesasse una sentenza del 2016 resa definitiva dalla Cassazione. Il giudice Riccardo Ricciardi spiegò che non bastava che i parlamentari non avessero giustificato le spese fatte con i soldi dell’Ars. Per poterli processare e condannare il pubblico ministero avrebbe dovuto dimostrare che davvero quei soldi erano stati sperperati per fini non istituzionali. È questo il cuore della motivazione con cui Ricciardi aveva rinviato a giudizio alcuni ex capigruppo (per i quali arrivarono delle condanne) e scagionato altri.
Per potere contestare il reato di peculato agli onorevoli dovevano esistere due condizioni: “La prima è che vi sia prova del fatto che sono state effettuate da parte del parlamentare regionale delle spese attraverso i contributi erogati dall’Assemblea Regionale Siciliana in capo a ciascun gruppo parlamentare, mediante l’esibizione della relativa documentazione fiscale, contabile ed extracontabile (scontrini, fatture etc) che attesti quale spesa sia stata effettuata in concreto, per quale importo, in quale data e presso quale soggetto (ad esempio, esercizio commerciale, struttura alberghiera o altro)”. In questo caso, secondo il giudice, era “di tutta evidenza che l’onere della prova non può che gravare sulla pubblica accusa”.
“La seconda condizione – si leggeva nella motivazione – è che vi sia prova del fatto che quella spesa sostenuta dal parlamentare regionale e comprovata dalla documentazione fiscale acquisita agli atti, sia stata diretta a perseguire un fine non rispondente a quello istituzionale per il quale era stato in precedenza erogato il contributo, essenzialmente legato al funzionamento del gruppo parlamentare che ne è stato il beneficiario”.
La mancata giustificazione della spesa, di per sé, dunque, “non può costituire prova di un utilizzo improprio dei finanziamenti”. Non bastava il minimo comune denominatore dell’assenza di pezze d’appoggio per fare scattare il rato di peculato, ma il pm doveva dimostrare come erano stati spesi i soldi pubblici. Tutto ciò valeva in sede penale, ma non contabile dove le stangate sono ormai definitive e gli onorevoli stanno pagando.
Oltre alla sentenza di Ricciardi il giudice Turturici spiega ora che bisogna tenere conto della “inconfigurabilità del reato o, comunque, del dolo appropriativo anche alla luce della non implausibilità delle spiegazioni” rese dagli indagati. Infine è stata la stessa Procura ad escludere dalle contestazioni quelle spese le cui finalità sono state ritenute “latamente istituzionali”.