Il governo è andato a Caivano, a dire che lo Stato c’è. Bene! E adesso? Se lo chiedono da quelle parti, ce lo siamo chiesti noi, qui, tante volte, ogni volta che le luci sfavillanti sulle visite di Stato, e di Chiesa, si sono spente e Palermo è tornata alla sua quotidianità. Quel nostro quotidiano che sa di opaco, che è fatto di pane duro e ventre molle. I tanti ventri molli di questa città, i tanti Caivano che fotografano una Palermo dura a morire.
Sì, Caivano non è poi così lontana e non mi riferisco all’episodio di stupro: guai a pensare che certe cose abbiano una residenza, succedono ovunque, sono sempre successe ovunque. Mi riferisco al territorio, ai servizi, alla qualità della vita, alle infrastrutture, alla gente; al concetto di periferia, che ancora oggi non riesce ad affrancarsi da una sotto dimensione che trascende la collocazione urbana strictu sensu e assume i connotati della desolazione. Eppure, nei giorni delle “visite”, come in quelli immediatamente precedenti, respiriamo tutt’altro che desolazione. Sentiamo nell’aria il profumo fresco della cura, della presenza, dell’ordine. Poi, però, basta. Poi la a-normalità, quel pane duro quotidiano che ricorda a noi il nostro debito col destino di città complicata.
Non siamo in Campania e non siamo un paesino. Siamo una città metropolitana, che respira storia, cultura e voglia di futuro. Qui c’è tanta voglia di futuro, siamo una città meravigliosa, che si è ribellata alle catene della mafia, che ha avuto un sussulto di coscienza e ha cambiato volto. È cambiata, sì. Ma non abbastanza, diciamocelo. Caivano ce l’abbiamo sotto gli occhi, ce l’abbiamo a due passi, qualche traversa più in là, a qualche fermata d’autobus in più (quando passa, se passa), alle spalle di un qualche riferimento riconosciuto e riconoscibile.
Probabilmente ogni city ha le sue Caivano, ma Palermo ne è piena: tante Caivano che coesistono in una città caleidoscopica, dai mille volti, colori, umori, rumori. Tutto mescolato, sovrapposto, confuso.
Il degrado, la delinquenza, i rifiuti, la povertà … povertà materiale, povertà sociale, povertà culturale, povertà spirituale. No, non voglio fare il nemico della contentezza e non sono affatto uno di quelli che criticano Palermo, e la Sicilia, quasi per partito preso. Amo la mia Terra e non la cambierei per nessun Eden al mondo. Ma proprio per questo, non mi stancherò mai di sottolinearne le criticità, perché dire che siamo diventati un città cool e che la Sicilia diventerà bellissima va bene, ma perché ciò accada davvero non dobbiamo smettere di guardarci intorno, con senso critico e spirito costruttivo.
Palermo ha in sé tante Caivano, inutile negarlo. Borgate buie, di borgatari che vengon su come le erbacce che invadono i marciapiedi; dove “sbirro” è un epiteto e non un amico; dove la testa è un’arma contundente e non uno strumento per pensare; dove le strisce pedonali ci sono (qui ci sono), ma sono soltanto forme geometriche sbiadite che adornano il grigiore dell’asfalto; dove la scuola è per molti una gran camurria e non parlo di chi deve andarci ma di chi deve mandarceli; dove l’abusivismo è la frontiera architettonica del menefreghismo; dove il dialetto non è quel nostro meraviglioso slang di musica e colori, bensì un codice di durezza e spavalderia; dove un muretto è lo scranno della noia, una villetta l’ennesima occasione perduta, uno spiazzo l’unico campetto senza porte e senza linee, un tombino una bomba ad orologeria col meteo per timer; dove un lampione spento è il palo a cui incatenare un motorino, non causa d’una strada insicura perché scura; dove la rassegnazione ha il sopravvento sopra ogni illusione e la rabbia si concentra sui “cornuti dei politici”, comunque contenti del bisogno e dei voti che alla fine ricevono sempre.
No, non succede solo a Caivano. Succede anche a Palermo. Eppure, quando viene il papa la città risplende e ogni anfratto sembra trasformarsi in delizioso angolo d’una città sicura, moderna, vitale e ordinata. Quando sbarca il Presidente, sembriamo Manhattan nel pieno del suo fulgore avveniristico. Proprio come Caivano, l’abbiamo vista tutti in tv, no? Era tirata a lucido, come l’argenteria da mostrare all’ospite d’onore, dopo anni di polvere e dimenticanza. C’erano vigili urbani e forze dell’ordine, quasi come in una parata. Si “respirava” l’aria pulita della normalità. E quella scuola, dell’ottima preside, sembrava un college svizzero. Insomma, non dico che somigliasse a un paesino del Trentino, ma poco ci voleva. E va bene così, va benissimo, ci mancherebbe. Ma adesso? Quei vigili urbani scompariranno, torneranno ad essere 16 gatti? (Sedici contati!).
I carabinieri, la polizia continueranno a presidiare, a reprimere, a dire “Lo Stato è qui”? O lasceranno nuovamente solo don Maurizio? Quella scuola si manterrà “svizzera” o l’inedia avrà il sopravvento e il sud del mondo pure. E dentro quella scuola insegneranno che il mondo non è quello che i ragazzi si lasciano dietro la porta di casa loro, quando se la chiudono alle spalle? Che Cristo non si è fermato a Caivano? E non si ferma neppure allo Zen o allo Sperone e neppure a Librino piuttosto che ad Arghillà, piuttosto che a Tor Bella Monaca? Quella struttura sportiva, lasciata incompiuta e masticata dall’incuria, la recupereranno veramente o presto o tardi la rivedremo a Striscia? E giusto a proposito di strisce, le strisce pedonali, qualcuno le traccerà? Sembra una banalità, eppure la mancanza di strisce pedonali a ridosso di una scuola sono l’emblema di quel terzo mondo. Se non ci sono le strisce vuol dire, non solo che nessuno le utilizza, non solo che nessuno le rispetta, ma anche che nessuno si è mai preoccupato di tracciarle.
È questo il punto. Caivano non è colpa dei Caivanesi (o come caivano si chiamano), così come lo Zen non è colpa dei zennesi (me le sto inventando tutte). È colpa delle istituzioni, che si prodigano in visite e poi dimenticano, abbandonano. Esattamente ciò che è successo da noi tante volte (sotto diversi governi e amministrazioni), quello che temo succederà lì anche questa volta. “O è Natale tutti i giorni o non è Natale mai”, recita una vecchia canzone.
Ecco cosa deve fare la politica: far Natale tutti i giorni. Recarsi sui luoghi, certo, perché testimoniare è sempre e comunque segno di presenza e condivisione, purché tuttavia quelle visite non vengano archiviate come una “pratica conclusa”, una volta saliti in auto blu, salutata la gente e andati via. La politica deve visitare Caivano e pretendere che quei luoghi rimangano così anche dopo. La politica deve essere nemica dell’oblio, non alimentarlo. Semplicemente perché è così che deve essere, è sacrosanto che sia così. Perché è sacrosanto garantire a tutti i cittadini la normalità e la parità di condizioni di vita. E perché comincia da qui la lotta – sacrosanta – dello Stato alla delinquenza, che attecchisce con più facilità nel degrado e nell’assenza delle istituzioni; anzi, è proprio lì che si genera.
La violenza è nelle menti obnubilate dall’ignoranza, è negli occhi che scrutano solo orizzonti insulsi, perché non se ne scorgono altri. È nelle vite che sguazzano nel torbido di giorni tutti uguali, scanditi dall’inedia e dalla noia. Ed è nella povertà. La povertà di case scrostate; di strade piene di buche; di muri imbrattati che gridano squallore; di figli sui marciapiedi bagnati di pioggia e lacrime trattenute; di palazzi ingrigiti, tenuti insieme da fili infiniti, su cui scorrono vite grame e da cui pendono panni lerci; di salari minimi e consumismo sfrenato; di disoccupati che cercano qualcosa e di quelli che non cercano altro che guai; è la povertà della povera gente, che si alza la mattina con una speranza che lentamente muore fino a spegnersi di sera; la povertà di gente perbene, che riempie queste Caivano d’esempi ed ottimismo, ma non può farcela da sola.
Questa è Caivano, queste sono le tante Caivano che insistono nella nostra quinta città d’Italia. E questo è il nostro Paese. Civiltà e democrazia evoluta, che evidentemente abbisogna di un grave fatto criminoso, per accorgersi di Caivano.