Palermo, tesoro confiscato ma Ciancimino jr non è più pericoloso

Palermo, tesoro confiscato ma Ciancimino jr non è più pericoloso

Un vorticoso giro di affari e denaro, un processo infinito
MISURE DI PREVENZIONE
di
6 min di lettura

PALERMO – Il tesoro di don Vito Ciancimino e del figlio Massimo va in confisca, ma quest’ultimo non è più socialmente pericoloso. La sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo ha rigettato la richiesta di applicazione della misura di sicurezza con obbligo di soggiorno.

Ci sono voluti quindici anni per definire, e siamo solo al primo grado, la questione dei beni dei Ciancimino. Il processo patrimoniale è iniziato nel 2007. Otto anni e mezzo sono serviti per stilare una perizia infinita.

Nei giorni scorsi è stata depositata la sentenza del collegio presieduto da Raffaele Malizia e composto dai giudici Luigi Petrucci ed Erika Di Carlo.

Il pizzino di Giuffrè

La motivazione del provvedimento è un lungo viaggio nel passato mafioso della città di Palermo. Quando arrestarono Nino Giuffrè, braccio destro di Bernardo Provenzano, aveva addosso aveva un pizzino. In un italiano sgrammaticato c’era scritto il nome di una società che doveva mettersi a posto con il pizzo. Fu l’inizio di un’inchiesta su un giro vorticoso di denaro che avrebbe portato gli inquirenti fino al tesoro di Vito Ciancimino.

Sessanta milioni, tra soldi versati in banche svizzere e spagnole, società con sedi in Romania e Lussemburgo, Ferrari, yacht, appartamenti a Roma e Palermo. A cui vanno aggiunti i 75 milioni trovati successivamente tra le pieghe di una società in Romania. La gran parte era già stata confiscata in sede penale.

L’azienda che doveva mettersi a posto per eseguire i lavori di metanizzazione ad Alcamo era la G.A.S Gasdotti Azienda Siciliana, amministrata dall’avvocato tributarista Gianni Lapis (oggi deceduto, il procedimento riguardava anche lui). I fari si accendono anche su un altro legale, Giorgio Ghiron, internazionalista con studio a Roma e New York.

A loro Massimo Ciancimino si sarebbe affidato per gestire una fortuna. La Gasdotti viene venduta il 13 gennaio del 2004 al gruppo spagnolo Gas Natural per 114 milioni di euro. Il ricavato è stato reinvestito nell’acquisto di altre società. Per prima Agenda 21 con sede a Bucarest, che si occupava di smaltimento di rifiuti solidi urbani.

Alcune quote di Agenda 21 sono intestate alla Sirco spa, con sede in via Libertà a Palermo, dove Lapis aveva il suo studio.

Il colpo di scena

L’inchiesta sul tesoro dei Ciancimino è piena di colpi di scena. Il primo avvenne nel luglio del 2005, quando in casa di Ghiron i carabinieri trovarono una scrittura privata in cui venivano citati alcuni beni che, era Ghiron a dirlo, appartenevano a Ciancimino: un appartamento in via della Mercede a Roma, poco distante da piazza di Spagna; la barca “Nonno Attilio”; una Ferrari modello Scaglietti che costava 300 mila euro, e il conto denominato Mignon aperto al Credit Lyonnais di Ginevra e in cui erano stati depositati 21 milioni di euro.

Il conto Mignon

Sul conto Mignon transitava un fiume di denaro come risultava dalla lista dei movimenti, solo che quando gli agenti della finanza ci misero gli occhi di sopra, nell’aprile del 2004, trovarono appena 500 mila euro. Erano gli spiccioli rispetto alla montagna di quattrini che vi era finita in pochi mesi. La cifra più grossa era di 3 milioni di euro passati all’Ubs di Ginevra, l’11 febbraio del 2004. Il conto, secondo l’accusa, era gestito e utilizzato da Ciancimino, con la collaborazione di Lapis e Ghiron, per acquisire e finanziare società, ma anche per i capricci del figlio dell’ex sindaco.

Barche di lusso

Il 22 gennaio 2004 c’era un bonifico di 230 mila euro per l’acquisto di un motoscafo, Itama 55, che da solo vale un milione e mezzo di euro. Il 10 settembre 230 mila euro furono girati a Ciancimino jr per comprare la Ferrari. Il 17 giugno un milione e 500 mila euro furono bonificati alle società Camtech e Kaitech. Appoggiandosi su un altro conto svizzero, il Dea Corp, Ghiron acquisì la Pentamax, società in franchising che gestiva un negozio di divani a Palermo.

Nella cassaforte dello studio romano di Ghiron saltarono fuori pure due documenti a firma di Vito Ciancimino. Nel primo risultava che don Vito non aveva lasciato alcun testamento, che la moglie Epifania Scardina e i figli Sergio e Giovanni avevano rinunciato all’eredità; mentre i figli Massimo, Luciana e Roberto l’avevano accettata con il beneficio d’inventario.

Ciancimino ha già scontato 3 anni per detenzione di esplosivo. Un reato che fece venire meno il beneficio dell’indulto che gli aveva evitato la cella nel 2011, quando era diventata definitiva la pena per avere riciclato parte del tesoro del padre

Ha collezionato la condanna, poi prescritta, per calunnia nei confronti del capo della polizia Gianni De Gennaro nell’ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia, di cui Ciancimino jr è stati uno dei principali testimoni, coccolato dall’allora Procura di Palermo e picconato dai giudici. La “quasi icona dell’antimafia”, come l’aveva definito l’ex pm Antonio Ingroia, ha perso la credibilità.

Longa manus di don Vito

“Il defunto Ciancimino, invero, ancor prima dell’introduzione nel nostro ordinamento delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale (nel 1982, con la legge Rognoni-La Torre) – scrive ora il collegio per le Misure di prevenzione – aveva già adottato tutta una serie di espedienti volti al nascondimento del suo patrimonio, anche all’estero, a dimostrazione di quanto fosse consapevole dell’illiceità di esso e dei rischi connessi a tale connotato negativo”.

“Deve evidenziarsi che il defunto Ciancimino Vito e, con esso, anche il figlio Massimo, che ha agito quale longa manus del padre – aggiunge il collegio – con la sua condotta ha consentito il protagonismo occulto degli esponenti mafiosi di Cosa Nostra nel processo di metanizzazione della Sicilia, tramite l’immissione di capitali illecita nel circuito delle imprese interessate alla vicenda e la gestione pianificata con gli esponenti di Cosa Nostra dei relativi appalti e subappalti”.

Tutto ciò inquadra Ciancimino jr “nella schiera delle persone socialmente pericolose”, nonostante in passato sia stata archiviata un’inchiesta nei suoi confronti per mafia. La pericolosità sociale, però, deve essere attuale. Secondo il collegio, si ferma “ai primi anni 2000, né risultano altre condanne a suo carico per reati commessi nell’interesse dell’associazione mafiosa”.

Ciancimino-Saguto

Ciancimino jr è già stato sottoposto per oltre 3 anni alla misura di prevenzione personale provvisoria. Almeno tale doveva essere. Era il 2012 quando il collegio presieduto da Silvana Saguto, poi condannata in appello e radiata dalla magistratura, gli applicò l’obbligo di soggiorno temporaneo. La gestione di una parte dei beni era stata affidata da Saguto a Gaetano Cappellano Seminara, l’amministratore giudiziario condannato assieme all’ex giudice. Ciancimino e suoi legali ne contestavano la mala gestio.

Lo stesso Tribunale, così dice la legge, entro 30 giorni avrebbe dovuto deliberare sulla richiesta di applicazione della sorveglianza speciale. Non lo fece. L’efficacia della misura fu dichiarata cessata soltanto nel 2015. Non c’era più Silvana Saguto, travolta dallo scandalo.

“Di fatto – tuona oggi il legale di Ciancimino, l’avvocato Roberto D’Agostino – non ci siamo potuti difendere da un provvedimento adottato in violazione di legge. Non lo abbiamo potuto impugnare perché un provvedimento non c’era. Una situazione che ha inciso in maniera pesante sulla vita di Massimo Ciancimino”.

Non è più socialmente pericoloso

Ciancimino non è più socialmente pericoloso, non essendoci “un solido sostrato probatorio, e al netto di semplici sospetti o ipotesi investigative – un giudizio di attuale dedizione al crimine del proposto, essendo trascorso un rilevantissimo lasso di tempo dall’ultima condotta rilevante”.

Il tesoro di famiglia, però, gli viene confiscato (la gran parte era stata confiscata già sede penale). Tutto tranne il 95% della Camtech con sede in Lussemburgo, gli immobili intestati a Massimo e Roberto Ciancimino in via dello Spasimo a Palermo, circa la metà delle quote della Ecorec e di Agenda 21 con sede a Bucarest che non fanno capo alla Sirco, andata invece in confisca.

Si chiude, anche se solo in primo grado, un processo infinito. E sono passati già quindici anni.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI