PALERMO – I racconti di due collaboratori di giustizia entrano nel processo per l’omicidio di Giuseppe Di Giacomo, assassinato alla Zisa il 12 marzo 2014. Sono Giuseppe Tantillo e Salvatore Bonomolo. Unico imputato è Onofrio Lipari.
La lite al funerale
Tantillo, pentito del Borgo Vecchio, ha raccontato che il giorno del funerale di Di Giacomo l’imputato e i suoi familiari furono allontanati. Ha palato di una lite con i parenti della vittima senza però sapere specificare cosa l’avesse provocata.
Ha aggiunto che Di Giacomo sarebbe stato ucciso per ritorsione nei confronti del fratello ergastolano Giovanni perché avrebbe picchiato un detenuto. Anche su questa vicenda, però, non ha saputo fornire ulteriori dettagli.
Vendetta contro il fratello
Secondo la ricostruzione della Procura di Palermo, che ha retto in un altro processo e in tutti e tre i gradi di giudizio, dal carcere Giovanni Di Giacomo progettava la vendetta per l’assassinio del fratello.
Riteneva che l’esecutore andasse individuato fra i componenti della famiglia Lipari. Solo grazie all’intervento dei carabinieri non ci fu una stagione di sangue.
Le ipotesi di Bonomolo
Per quanto riguarda Bonomolo, arrestato nel 2012 a Caracas dove gestiva lucrosi traffici di droga, durante un interrogatorio del 2017 si presentò con degli appunti che contenevano anche il nome di Giuseppe Corona, condannato lo scorso marzo a 15 anni e due mesi con l’accusa di essere uno dei volti nuovi della mafia palermitana, capace di fare da cerniera fra diversi mandamenti.
Allora Bonomolo presumeva, nessun elemento concreto in tal senso, che il mandante dell’omicidio fosse Tommaso Lo Presti, soprannominato il pacchione, e Corona l’esecutore materiale del delitto.
Bonomolo aveva saputo di una lite per questioni di droga avvenuta nel 2004: “Giuseppe Di Giacomo gli ha bruciato la macchina a Pieruccio Lo Presti (lo zio di Tommaso ndr)… intervenne Nicola Ingarao (allora era il reggente del mandamento, poi assassinato su ordine dei Lo Piccolo ndr) e gli fece comprare la macchina”.
La macchina bruciata
“Lei pensa che uno dei Lo Presti si accolla che gli bruciano la macchina?”, diceva Bonomolo al pubblico ministero. E Corona? “L’unico che si poteva fidare ad ammazzare a questo”. Così ipotizzava senza avere alcuna certezza in tal senso.
Che Lo Presti sia stato il mandante era una ipotesi anche della Procura. Il boss, scarcerato per fine pena, è stato indagato ma non sono arrivati i riscontri necessari per mandarlo sotto processo. Un altro pentito, Vito Galatolo dell’Acquasanta, disse di avere saputo “che forse il Di Giacomo Giuseppe gli avrebbe dato uno schiaffo a Lo Presti Tommaso o lo avrebbe offeso con la bocca…”.
Nessun riscontro, anche in questo caso solo frasi de relato. Alle prossime udienze saranno chiamati a testimoniare dei parenti dell’imputato. Alcuni sono già stati sentiti. Nel frattempo saranno trascritte le intercettazioni di alcun colloqui in carcere, mentre Lipari continua a negare di avere ucciso l’uomo che considerava il suo secondo padre.