Forse Provenzano è riuscito a farla franca anche nel 2001. Un deja vu, il ripetersi di una storia già grossomodo sentita e che si svolge tutta all’interno del corpo dell’Arma dei carabinieri. Il racconto del maresciallo Saverio Masi in aula – al processo contro l’ex colonnello Mario Mori – somiglia a quello di Michele Riccio che nel 1995 stava per mettere le mani su Bernardo Provenzano se, questa l’accusa sostenuta dai pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, i suoi superiori non gli avessero messo il classico bastone fra le ruote. Bisogna spostare il periodo di sei anni e traslocare da Mezzojuso a Ciminna.
Saverio Masi, oggi nella scorta dello stesso Di Matteo, ha testimoniato delle difficoltà avute all’interno nel suo corpo nelle indagini protese alla cattura dell’ex primula rossa corleonese. Aveva costituito una sua squadra e imboccato una pista, apparentemente, molto buona. Le indagini, infatti, l’avevano portato a un casolare sperduto nei pressi di Ciminna. Il giorno dopo la cattura di Benedetto Spera – uno dei principali fiancheggiatori di Provenzano – era stata allacciata l’energia elettrica. L’intestatario del contratto apparteneva alla stessa famiglia che aveva firmato il contratto per la luce nel covo di Spera. Sembrava un chiaro indizio di uno spostamente di Provenzano da un covo a un altro. “Mi fu imposto di coordinarmi col Ros – racconta Masi – mi ero attrezzato per la preparazione tecnica. Volevo piazzare una telecamera, installare delle cimici all’interno era troppo pericoloso, rischiavamo certamente di essere visti. Il colonnello Sottili mi chiese quale ditta mi avrebbe fornito il materiale e, saputolo, mi ha detto di non lavorare mai con una ditta di Palermo, anche se, negli anni a seguire, abbiamo sempre lavorato con un’azienda cittadina”. Quindi, “la telecamera non viene montata”, si preferisce agire con delle cimici. “Avviene un lungo empasse, tutto era in mano al capitano Valeri del Ros, poi, addirittura, ci passano sopra con un elicottero… io avevo passato le notti a scalare le montagne per fare qualche ripresa, evitavo di passare dal paese e quando iniziò il breafing per capire come intervenire, c’erano auto del Ros nei pressi del casolare”.
“Abbiamo tentato di entrare nel casolare per piazzare le cimici – continua Masi – ma non ci siamo riusciti né la prima, né la seconda volta. Mi sembravano scuse: una volta si era rotta l’apparecchiatura, un’altra volta non c’era la chiave adatta. L’ho esternato ai miei superiori e loro mi hanno detto: ‘è un caso’”. Ma un giorno Masi riceve la chiamata del capitano Valeri: “Vuoi vedere che l’ha fatto?” si chiede il sottufficiale. I militari erano entrati nel casolare ma le cimici non erano state piazzate, non era stata trovata la fonte di alimentazione, “mentre io mi ero premunito di batterie. Quindi andai da Sottili – aggiunge Masi – perché l’accordo era che dovevo esserci io o un uomo della mia squadra. C’è stato un alterco e subì l’ordine di chiudere l’indagine”. Secondo quanto poi aggiunge il testimone, la polizia poco dopo ha intercettato due fiancheggiatori di Provenzano e ha trovato riferimenti proprio a quel casolare. La rabbia del sottufficiale sarebbe scoppiata proprio in occasione dell’arresto del padrino corleonese, quando è stato convocato con molti suoi colleghi per ricevere i complimenti del colonnello Sottili e del maggiore Francesco Gosciu, per il contributo dato nell’attività finalizzata alla cattura del latitante. Ma l’attività non era finita lì, Masi aveva una buona pista per arrivare a Matteo Messina Denaro. “Sono stato trasferito alla prima sezione, mi avevano detto che sarei stato qualche giorno lì, prima di rimettermi a lavoro con la mia squadra e, invece, è passato un anno e mezzo”.
Il sottufficiale dell’Arma è stato denunciato per falso ideologico e materiale e truffa, per via di una multa presa con un’auto privata mentre si trovava in servizio. “Usavamo sempre macchine di amici e parenti per fare i pedinamenti – ha spiegato Masi – i fiancheggiatori annotavano le targhe delle auto che usavamo. Così se, ad esempio, dovevamo entrare a Bagheria, ricorrevamo ad auto intestate a nostri conoscenti del posto, in modo da non destare alcun sospetto. E di multe ne abbiamo ricevute diverse. Era una procedura che i miei superiori conoscevano”.
Una storia che, è doveroso sottolineare, ha a che fare con il Ros dei carabinieri ma non direttamente con Mario Mori, imputato nel processo. Masi era stato chiamato a deporre per confermare le sue dichiarazioni in merito al ritrovamento a casa di Massimo Ciancimino, in una perquisizione effettuata nel 2005, dell’ormai famoso “papello” di Totò Riina da parte del capitano Antonello Angeli a cui sarebbe stato ordinato di lasciarlo lì. Masi, così, si sarebbe recato al principio dell’estate 2006 a casa del giornalista de “L’Unità”, Saverio Lodato, che ha deposto anche lui al processo. “Hanno bussato alla porta di mia madre due persone che si sono presentate come carabinieri, mi hanno detto che avevano qualcosa di importante da dirmi per il mio lavoro ma non volevano parlarne lì, ci potevano essere cimici in casa. Mi hanno scritto i loro nomi e numeri di telefono in un foglio di carta e mi hanno dato appuntamento tre giorni dopo. Ma non sono andato, la discussione non mi aveva convinto”.