Quattro anni dopo la riforma che ha soppresso le province siciliane promettendo il taglio dei costi della politica e la creazione di enti moderni ed efficienti, i nuovi enti di area vasta non esercitano le nuove competenze, sono amministrati da commissari regionali e da vertici provvisori, non hanno fondi sufficienti per garantire neppure le “vecchie” funzioni, ed i cittadini sono spesso costretti ad agire in giudizio per ottenere prestazioni e servizi essenziali.
Tale situazione origina principalmente dalla consistente mole di tagli alla spesa e riduzione delle entrate e dei trasferimenti statali, che ha interessato tutte le province dell’intero territorio nazionale, comprese quelle siciliane. La legge statale, infatti, nella prospettiva della soppressione delle province, ne ha notevolmente ridimensionato le funzioni, e di conseguenza ha progressivamente ridotto le entrate e la spesa di questi enti, sulla base dell’equazione meno competenze, meno spese, meno fabbisogno di risorse.
In Sicilia, però, la legge regionale ha incrementato le funzioni degli enti di area vasta che, anche se non hanno acquisito le nuove competenze, si sono comunque trovati in una situazione insostenibile perché, rispetto a quelli del resto del territorio nazionale, hanno dovuto sostenere un maggior numero di funzioni con meno risorse.
Recentemente lo Stato ha adottato misure volte a compensare le riduzioni di risorse correnti ed i tagli di spesa subiti dalle province e città metropolitane delle regioni a statuto ordinario, senza estendere lo stesso sostegno finanziario agli eredi delle province siciliane.
La Corte dei conti e la Ragioneria dello Stato hanno calcolato che per allineare la situazione degli enti siciliani a quelli delle altre regioni servono 54 milioni di euro, e per ripristinare “le condizioni di equilibrio antecedenti ai tagli” circa 100 milioni.
Il recente accordo con lo Stato prevede l’attribuzione agli enti di area vasta siciliani di 100 milioni di euro, che si aggiungono al contributo di 70 milioni annui da parte della regione ed a quello di 540 milioni (rateizzato sino al 2025) riconosciuto dallo Stato in forza degli accodi del 2017 e 2018.
L’insieme di queste misure pone, quindi, gli enti siciliani in una situazione di vantaggio rispetto a quelli del resto del territorio nazionale, e nella medesima condizione delle vecchie province (prima dei tagli), ma non basta a ripianare del tutto i disavanzi degli ultimi anni. Ciò perché il deficit accumulato dagli enti siciliani dipende in buona misura dagli effetti della riforma regionale che ha aumentato le funzioni e le spese delle nuove province senza individuarle risorse necessarie a finanziarle.
Per compensare questo buco, secondo alcune stime, servirebbero circa 1.700 milioni di euro per l’anno 2019 e 300 milioni per gli anni 2020 e successivi, ma la Corte dei conti e la Ragioneria generale dello Stato hanno rilevato che un simile trasferimento sarebbe difficilmente sostenibile dal bilancio statale, e determinerebbe una condizione di privilegio rispetto alle province delle altre regioni, che pretenderebbero anch’esse l’integrale ripianamento dei propri deficit di bilancio.
Oltre a ciò difficilmente lo Stato potrebbe accettare di coprire un deficit causato in misura rilevante da una riforma varata da una Regione che, invocando la propria specialità, ha adottato una soluzione opposta a quella prevista nel resto del territorio nazionale.
In un simile contesto la soluzione di una problematica così complessa non può che derivare dalla riconfigurazione delle funzioni di liberi consorzi e città metropolitane, preferibilmente nell’ambito del riordino dell’intero sistema di governo locale.
La prima opzione da valutare sarebbe quella di prevedere in una prima fase l’attribuzione di un numero limitato di funzioni fondamentali coincidenti con quelle delle province del resto del territorio nazionale, in modo da garantire nell’immediato l’effettiva corrispondenza tra costi delle funzioni e risorse. Successivamente si potrebbe prevedere l’attribuzione di altre funzioni, ma solo in seguito all’individuazione di risorse sufficienti a garantire l’erogazione di un livello adeguato di servizi e prestazioni.
Ciò consentirebbe di differenziare le competenze delle nuove province, rispetto a quelle delle altre regioni, ed al contempo, garantirebbe la funzionalità delle nuove province e faciliterebbe la trattativa con lo Stato per l’assegnazione di risorse ulteriori.
Il riassetto istituzionale dovrebbe riguardare l’intero sistema dei poteri locali, la struttura periferica regionale e la vasta galassia di società partecipate, enti ed organismi strumentali, agenzie, soggetti d’ambito, unioni, gal, convezioni, distretti, consorzi, e altre varie forme di esercizio associato o condiviso di attività pubbliche. Ciò consentirebbe di offrire ai cittadini e alle imprese un livello adeguato di servizi e prestazioni senza gravare troppo sulle tasche dei contribuenti, razionalizzando un vasto apparato che la Corte dei conti ha definito “fuori controllo” ed eliminando duplicazioni e sovrapposizioni di competenze, moltiplicazione delle strutture e degli apparati burocratici, che appesantiscono l’azione pubblica e annacquano le responsabilità.