Padrino morto, successione aperta| La mafia che verrà dopo Riina - Live Sicilia

Padrino morto, successione aperta| La mafia che verrà dopo Riina

"Se non muoiono non se ne vede lustro", diceva un boss. Quel giorno è arrivato.

LA MORTE DEL BOSS
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PALERMO – “Mischini, sono anziani e malati”, diceva il boss di Villagrazia, Mariano Marchese, parlando di Totò Riina e Bernardo Provenzano. La morte dei padrini era vista come il passaggio necessario per la nuova stagione di Cosa nostra. Il punto e a capo dell’intera organizzazione.

Marchese ne discuteva con il rampollo di un altro potentato mafioso, i Pullarà di Santa Maria di Gesù. “L’hai visto?… sta morendo… (sorrideva)… mischino…”, così parlavano di Provenzano. “E se non muoiono tutti e due luce non ne vede nessuno… è vero zio Mario?”, aggiungeva Santi Pullarà. “Lo so”, rispondeva Marchese che tirava in ballo altri cognomi pesanti: “… non se ne vedono lustro… e niente li frega… ma no loro due soli… ma… tutto u vicinanzo… era sotto a loro… Graviano, Bagarella, questo di Castelvetrano…”.

Quel giorno è arrivato. Riina e Provenzano sono morti. L’unico corleonese della vecchia guardia ancora in libertà è il latitante Matteo Messina Denaro. Un fantasma, quasi impalpabile in Sicilia tanto che si ipotizza una sua fuga all’estero. È stato guardingo, nulla farebbe ipotizzare, almeno per il momento, la sua voglia di intestarsi il ruolo di capo di Cosa nostra nella stagione post Riina. Fra ergastoli e decessi per il trascorrere del tempo la parentesi corleonese e stragista della mafia è chiusa. Volendo usare le parole dello storico Salvatore Lupo si può affermare che “quella guerra è finita”.

Che succederà nella mafia palermitana? Forse sarebbe opportuno innanzitutto chiedersi cosa sia già successo. Dall’arresto di Riina, nel 1993, la cupola di Cosa nostra non si è più potuta riunire perché un capo resta tale per sempre, anche se detenuto al 41 bis. C’è stato un tentativo, datato 2008, in cui un manipolo di vecchi boss aveva pensato al colpo di mano. Volevano cambiare le regole e convocare la commissione provinciale con i reggenti dei mandamenti ancora liberi. I carabinieri stopparono il tentativo sul nascere. Un tentativo che aveva creato una spaccatura tra le famiglie mafiose.

Dello stesso argomento potrebbe essersi discusso nel 2011, al maneggio Villa Pensabene, alle spalle del Velodromo che porta il nome di Paolo Borsellino, nel corso della più importante riunione di mafia dell’ultimo decennio. A convocarla era stato il boss di San Lorenzo, Giulio Caporrimo. Di recente sarebbe emerso qualche altro tentativo, di certo più blando rispetto al passato. di sondare la disponibilità a presenziare a un vertice.

Di fatto quella di Palermo, che ha sempre espresso la leadership dell’intera Cosa nostra siciliana, è l’unica provincia senza una commissione e un rappresentante unico. Una questione vitale per un’organizzazione che ha nella struttura verticistica la sua stessa ragione di esistenza.

Con la morte di Riina la convocazione di una riunione di tale spessore smette di essere un gesto di lesa maestà e diventa una necessità. Tecnicamente, per lo stesso principio applicato a Totò Riina, i capimafia detenuti in carcere hanno diritto di parola. Dal 41 bis che li obbliga a una vita controllata notte e giorno dovrebbero incaricare i reggenti che nel frattempo hanno preso il loro posto. Perché, questa sì è una certezza, un capo sa già che prima o poi sarà coinvolto in una retata, e allora mette le cose a posto in tempo scegliendo il suo successore. È la catena del potere che non si spezza. Non sarebbe la prima volta che un boss, nonostante il regime del carcere duro, riuscisse a veicolare un’informazione all’esterno. È vero, sono lontani i tempi in cui Giuseppe Graviano concepiva un figlio mentre era detenuto, ma una parola appena sussurrata ad un parente può sempre sfuggire al controllo.

Ammesso che accada entrerebbero in gioco coloro che stanno fuori. È sui clan dall’arresto di Riina a oggi che ci si deve concentrare. Hanno spesso vissuto nel mito dei padrini corleonesi. “Ah se ci fosse Totò”, diceva un boss della nuova generazione, Antonino Di Marco, custode del campo sportivo di Corleone. Qualcuno, però, ha visto in Riina sepolto in carcere un freno ad ogni iniziativa. Senza il via libera del capo e della commissione provinciale ci si è dovuti accontentare di gestire l’ordinaria amministrazione. Ora che il padrino non c’è più la strategia potrebbe cambiare.

Nel frattempo, per stessa ammissione degli investigatori, si è abbassato il livello criminale dei protagonisti. Almeno quelli dell’ala militare. La mafia di oggi è anche quella che chiede cento euro per la festa rionale nel popolare quartiere del Borgo Vecchio, che si gonfia il petto quando la vara in processione si inchina, se davvero si inchina, davanti alla casa del boss, la mafia del boss che fa chiudere un’attività commerciale perché fa concorrenza alla polleria del figlio o che dà il via libera all’apertura della bancarella abusiva di sfincione.

È la stessa mafia, però, che quando vuole sa uccidere. E lo fa in maniera chirurgica senza farsi scoprire. I boss parlano a ruota libera sapendo di essere intercettati (come fanno a non immaginarlo?), ma quando c’è da ammazzare qualcuno si muovono in maniera riservata. E le microspie captano solo bisbiglii.

Ed è anche la mafia che sa imporre il pizzo a tappeto per mantenere il controllo del territorio e traffica con la droga. Poca roba rispetto alla potenza della ‘ndrangheta, ma la cocaina consente ad alcuni di vivere nel lusso e a tanti di sopravvivere. Ed ancora è la mafia che si affida ad insospettabili prestanome e professionisti per gestire immense fortune accumulate nel passato. Montagne di soldi che hanno dato vita ad imprese apparentemente pulite, salvo poi scoprire che si servono di giri di false fatture, anche estere, per riciclare i soldi sporchi. Ed è su questo fronte che si concentrano le attuali e le future indagini.

Quello che gli investigatori tendono ad escludere è la scelta di andare avanti senza un capo. Sarebbe l’inizio del processo di camorrizzazione e della inevitabile fine di Cosa nostra.

Ciascun reggente nell’attesa farà quello che ha fatto negli ultimi anni: controllare il proprio mandamento. E quando ci sarà qualche affare, di pizzo o di droga che travalica i confini, busserà alla porta dei vicini parigrado. L’unica incognita è rappresenta dall’elenco degli scarcerati che si ingrossa di giorno in giorno e che tanto preoccupa. Può esserci qualcuno maldisposto ad accettare la situazione che ritrova una volta libero. Prova ad alzare la voce e viene zittito con il piombo. Come è successo a Giuseppe Dainotti, boss di Porta Nuova, ergastolano “salvato” dalla finestra di una legge favorevole e crivellato di colpi alla Zisa.

La tesi più plausibile è che inizi un percorso per arrivare alla scelta dei nuovi componenti della commissione provinciale. Che di fatto sarebbe un ritorno all’antico, alla fase pre Riina, quando a decidere erano più boss. Niente a che vedere con la deriva personalistica del padrino corleonese che, però, non fece tutto da solo, ma trovò l’appoggio – dettato dalla paura ma anche dalla convenienza – di alcune famiglie mafiose palermitane. Il nodo cruciale è se la scelta dei nuovi rappresentanti sarà indolore, oppure scatenerà la reazione di chi si sente autorizzato a prendere il potere in virtù del passato criminale. Ci sono, però, dei punti fermi da tenere a mente. Le conoscenza investigative di oggi non sono quelle frammentarie del passato. E il passato ha insegnato ai mafiosi che la guerra, quella voluta da Riina, è stata disastrosa per Cosa nostra.

 

 


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