CATANIA – Un post di pochi giorni fa sulle dinamiche innescate dal prevedere il nuovo e prossimo palazzo della giustizia catanese al posto dell’obbrobrio del vecchio palazzo delle poste lungo le latitudini di viale Africa. Un richiamo sull’opportunità di averlo previsto proprio su quel sito che ha suscitato un dibattito seppur rigorosamente silenzioso (come per tante altre circostanze etnee) ma che ha infiammato gli smartphone di parecchi addetti ai lavori e non solo.
A colloquio con il Procuratore aggiunto della Repubblica di Catania, Sebastiano Ardita. Anche sulla visione della città e dei suoi giovani.
Dottor Ardita, partiamo dalla fine. E quindi da quel post sul palazzo di giustizia al viale Africa ed il riferimento agli sfollati di Librino. È, secondo lei, una vicenda che è un pò la cartina di tornasole di tante questioni catanesi?
“Lo è in modo emblematico per tutta una serie di implicazioni simboliche e pratiche. Ma ho sentito il dovere di spendere una parola solo perché si tratta di una questione che in qualche modo riguarda l’amministrazione della giustizia. E l’ho fatto a titolo personale con l’auspicio che per il futuro la città sia più inclusiva con le sue periferie; e i cittadini, – come me ed altri, che hanno avuto la fortuna di nascere nel centro benestante – diano uno sguardo a quanti vivono nei quartieri ghetto.
Sono consapevole del fatto che in tanti settori si fanno sforzi per compiere passi avanti. A me non compete un giudizio sull’amministrazione pubblica, su cui come cittadino ripongo fiducia. Ma non credo di essere il solo magistrato di questa città che auspica più inclusione sociale ed avrebbe preferito che il palazzo fosse stato costruito a Librino”.
Lei ha un nutrito seguito sui social da dove spesso si confronta e si innescano anche ragionamenti sull’attualità del presente. E tante volte richiama a quel “dovere di fare memoria“.
“Quello è un altro discorso. Ma in fondo si tratta di ricordare persone che sono morte perché credevano nei valori della nostra democrazia. Opporsi alla stretta asfissiante della cultura mafiosa e impedire che condizioni le nostre scelte di tutti i giorni è un altra faccia della stessa medaglia”.
Dal suo punto di osservazione, che città di Catania è quella di oggi?
“È una città che da molti anni appare sfiduciata e che certamente è stata messa ai margini della vita pubblica, di quella economica e sportiva. Ma può rialzarsi e riconquistare la propria identità, nella quale in molti non credono solo perché non la riconoscono. Facendo leva sulla laboriosità e sull’intelligenza dei catanesi, sul loro spirito solidale, e diffondendo un po’ di orgoglio e di storia si può ripartire. Catania fino alla metà del secolo scorso ha esportato le migliori intelligenze. Ma poi è caduta in una crisi profonda, è stata colonizzata e a volte umiliata.
Sono politicamente neutrale, ma difendo la mia città, la sua storia e la sua identità”.
C’è un altro punto sul quale insiste molto: quel silenzio che pare caratterizzare la comunità etnea. Perlomeno in questo periodo storico.
“Questo è un aspetto legato a una caratteristica del potere catanese: creare una forte intesa tra gente che conta. Una cosa è il rispetto istituzionale e la collaborazione. Un altro conto è rinunciare alla critica. Passa l’idea che per far parte della ristretta élite che controlla la città, occorre compiacere oppure tacere.
Ma sono esistiti anche catanesi che avevano il coraggio di affrontare di petto le questioni importanti. Basti pensare a Giuseppe de De Felice Giuffrida”.
Cosa intravede, proiettandosi tra qualche anno, nelle battaglie a cosa nostra? Quello mafioso è un fenomeno in crisi o in ascesa?
“Non le saprei dire quale sarà il futuro di cosa nostra. Molto dipenderà dalla nostra capacità di contrastare la cultura mafiosa che, superato lo scontro militare, si è trasformata in nichilismo puro: ricerca di ricchezza e di potere fine a se stessa. Ed è una cultura che si fa strada sempre più nella vita di tutti i giorni e anche nelle stesse istituzioni. Per dirla con Bolzoni, stiamo vivendo un’epoca in cui “c’è sempre più mafia e ci sono sempre meno mafiosi”.
Da ex direttore generale del Dipartimento detenuti e trattamento del Dap, perché (come ci ricordano le recenti operazioni di polizia) sembra essere così facile per i boss impartire ordini dal carcere?
“Quella è stata una scelta politica nazionale. Non si capisce bene per obbedire a quale esigenza si è trasformato il carcere in un luogo che contraddice il suo scopo di rieducare e garantire sicurezza. Detenuti liberi di agire, di delinquere e di sottomettere i più deboli tra di loro. E agenti resi incapaci di far prevalere le regole dello Stato e l’ordine. Non sarà facile rimettere in piedi l’istituzione penitenziaria riportandola ai suoi obiettivi: rispetto delle persone recluse, ma anche certezza delle regole”.
Che messaggio va lanciato alle generazioni di oggi?
“Direi loro di impegnarsi in quello che sarà dato loro di potere compiere. Di farlo sempre provando ad aiutare quanti sono in difficoltà. E di svolgere con passione e umiltà il proprio lavoro, non per prevalere sugli altri, ma per capire ciò che ci rende davvero utili. Per quanto modesto sia l’apporto che diamo, anche il sorriso di chi ci riconosce che abbiamo lavorato con onestà può dare conferma che ci siamo riusciti. La vita non è eterna e non ci portiamo niente dietro. Quindi suggerisco loro di fare il proprio dovere – anche se può comportare qualche rischio – e di apprezzare la gioia che si prova quando si è consapevoli di averlo fatto. Chi lavora solo per se’, in genere non è mai felice”.

