PALERMO – La decisione è rinviata. Solo di qualche giorno, però. Il giudice per l’udienza preliminare Piergiorgio Morosini ritiene necessaria un’appendice di approfondimenti prima di decidere se mandare a giudizio o meno l’ex presidente del Senato Renato Schifani. Un’appendice che si esaurirà il prossimo 23 luglio, data in cui il Gup ascolterà accusa e difesa. Poi, tirerà le somme partendo dalla richiesta di archiviazione dell’inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa avanzata dalla stessa Procura di Palermo. Morosini ha una terza possibilità: invitare i pm ad andare avanti con le indagini.
L’inchiesta, già in passato archiviata, era stata riaperta nell’estate del 2010. Sul fascicolo spuntò il nome Schioperatu per garantire il massimo della riservatezza alla seconda carica dello Stato. Nel fascicolo sono confluite le dichiarazioni di alcuni pentiti. A cominciare da Gaspare Spatuzza. L’ex braccio destro dei fratelli Graviano, capimafia di Brancaccio, parlò delle visite che una quindicina di anni fa Schifani, all’epoca avvocato amministrativista, avrebbe fatto all’imprenditore Pippo Cosenza, suo cliente. Nel capannone di quest’ultimo, disse il collaboratore, sarebbe stato presente anche Filippo Graviano, all’epoca non ancora latitante. Alle accuse di Spatuzza si sono aggiunte quelle di Francesco Campanella e Stefano Lo Verso, entrambi vicini al clan mafioso dei Mandalà di Villabate, alleati storici di Bernardo Provenzano.
Lo Verso, testimoniando in aula al processo per favoreggiamento aggravato al generale dei carabinieri Mario Mori, disse di avere saputo dal capomafia Nicola Mandalà che avevano “nelle mani Renato Schifani, Marcello Dell’Utri, Totò Cuffaro e Saverio Romano”. Queste accuse non sono state ritenute attendibili in un altro processo, quello in cui è stato assolto l’ex ministro Saverio Romano anche lui imputato di concorso esterno. Un’assoluzione resa definitiva dalla Cassazione al termine di una lunghissima indagine e dopo che la Procura ha deciso di non appellare la stessa assoluzione.
Campanella, ex politico dell’Udeur e condannato per avere favorito la latitanza di Provenzano (fu lui a procurare la carta di identità per consentire al padrino corleonese di andare in Francia per curarsi), una volta divenuto collaboratore di giustizia disse che Schifani avrebbe messo a disposizione del capofamiglia del mandamento, Nino Mandalà, (allora incensurato) le sue conoscenze giuridiche. L’avvocato avrebbe suggerito come modificare il piano regolatore per andare incontro alle esigenze imprenditoriali del clan mafioso. Campanella fu querelato da Schifani. Il Gip archiviò, ma espresse dubbi sulla veridicità della accuse del pentito.
Nel luglio dell’anno scorso è stato interrogato il testimone di giustizia Innocenzo Lo Sicco che davanti al procuratore Francesco Messineo e all’aggiunto Antonio Ingroia parlò dell’attività di avvocato amministrativista di Schifani, che negli anni Novanta assistette Pietro Lo Sicco, zio del teste, poi condannato per mafia. Secondo Enzo Lo Sicco, Schifani gli avrebbe riferito di essere riuscito a “salvare” un palazzo abusivo nell’area di piazza Leoni, a Palermo: si trattava di un edificio fatto costruire da Pietro Lo Sicco, e che era stato fatto rientrare in una sanatoria durante il governo Berlusconi. La sanatoria sarebbe stata fatta, almeno così avrebbe sostenuto il testimone, con alcune caratteristiche anche per venire incontro alle esigenze del cliente di Schifani. La circostanza in passato non aveva trovato riscontro alcuno ed era stata ritenuta comunque penalmente irrilevante.
Il 23 luglio prossimo, dopo avere ascoltato accusa e difesa, la decisione del giudice Morosini.
La replica di Schifani
“Dopo due anni di notizie apprese a mezzo stampa dell’esistenza di un’indagine a mio carico, oggi finalmente ho avuto modo di prendere visione della motivata richiesta di archiviazione sottoscritta dal pool antimafia di Palermo. Gli eventuali approfondimenti disposti dal giudice confermeranno la mia assoluta estraneita”. Così Renato Schifani all’Ansa.