La politica non serve più, è un tostapane rotto, un attrezzo in riparazione che non può essere riparato, un fondo di magazzino. Prima era brutta, sporca, cattiva, però riusciva a spostare qualcosa. Ora è cattiva, brutta, sporca, anche se ha comprato uno specchio deformante per raccontarsi bella. E non sposta più niente. Somiglia, la politica, a una rappresentazione, col sipario chiuso. Il pubblico in platea intuisce che qualcosa sta accadendo, da sussurri, gorgheggi e tonfi, ma non sa bene cosa. E’ simile, la politica, a una partita di calcio senza porte. Si riduce a una corsa surreale – scenografica, certamente redditizia per chi fa parte del giro e da questo strano sport ricava ottimi dividendi mensili – che non conosce mai approdo.
La discussione della mozione di sfiducia all’Ars, impallinata sul nascere, condensa in metafora il ragionamento. Un rito inutile, conscio della propria inutilità, perfettamente avvertito dai suoi sponsor come un vuoto da riempire con le parole. Eppure è stato celebrato e, in quel celebrarsi, tutti hanno perso.
Hanno perso le opposizioni. Avrebbero voluto offrire un segnale simbolico, forte di sdegno, invece hanno comunicato l’impossibilità di incidere. Lo show non ha portato alcun ritorno di immagine, anzi. Ha perso il centrodestra, nell’enunciazione stessa dell’atto. Ha dimostrato di non avere risorse spendibili, oltretutto risulta veramente difficile accettare lezioni di etica dagli stessi protagonisti di più stagioni infauste di governo.
Hanno perso i grillini, che almeno possono rivendicare qualche attenuante. Hanno perso perché non si può mendicare l’eterna giovinezza, con un piede fuori dal palazzo e il vestito logoro della contestazione addosso come unica proposta demagogica. Per onestà: ai pentastellati va riconosciuto qualche grammo di coerenza, ancora mostrano tracce fresche della domanda di rinnovamento di cui sono ormai una pallida decalcomania.
Ha perso, a coro della discussione, il Pd, intransigente, critico nei confronti del governatore, centrale atomica di missili sparati ad alzo zero sul portone di Palazzo d’Orleans, fino alla ricomposizione. Il Pd – dopo tanto gridare – si è accucciato al cospetto di un governo che sarà appena un po’ più decente di quello dei predecessori, ma che non appare baciato dal crisma “della svolta” salutata frettolosamente dal segretario democratico Fausto Raciti. E’ chiaro che si sono messi d’accordo. Forse avrebbero potuto farlo, evitando di invocare l’anima santa della questione morale, della competenza e dei massimi principi.
Ha perso, infine, Rosario Crocetta che è riuscito – rinunciando a moltissimo – a mantenere la poltrona, perfino con un corredo matematico più rassicurante. Adesso è un governatore dimezzato, sottoposto al commissariamento soft di Roma che ha subito posizionato un suo uomo nel settore delicato dell’Economia, legato a doppio filo alla maggioranza che ha imposto la cacciata dei fedelissimi, come atto di abiura di ciò che era stato. Con buona pace di ogni vagheggiata rivoluzione.
Tutti i sussulti, tutte le promesse di cambiamento, di rovesciamento della Sicilia a uso calzino, sono naufragati nell’estetica un po’ volgare di una mozione di sfiducia fagocitata in fretta, all’alba del ‘governo del presunto rinnovamento’. L’episodio sarà presto rimosso dalla memoria minima degli almanacchi siciliani. Come si mette via un tostapane rotto, un attrezzo inutile, questa politica che non serve più.