PALERMO – Alcuni capi di imputazione cadono nel merito, altri per prescrizione. Si chiude il processo di appello per le cosiddette “spese pazze” all’Assemblea regionale siciliana.
Salvo Pogliese, Pdl, 2 anni e 3 mesi (aveva avuto 4 anni e 3 mesi). Per l’ex sindaco di Catania alcune contestazioni non sono state commesse, altre non costituiscono un reato, altre ancora prescritte. Da qui la riduzione di pena. L’interdizione perpetua dai pubblici da perpetua diventa per un solo anno. Era difeso dagli avvocati Franco Coppi, Francesco Bertorotta e Giampiero Torrisi. La legge Severino prevede l’incandidabilità in caso di pene superiori a due anni. L’attuale senatore di Fratelli d’Italia farà certamente ricorso in Cassazione. Nel frattempo alcuni capi di imputazione potrebbero cadere in prescrizione e pertanto, in caso di condanna, la pena potrebbe essere rivista al ribasso.
Assoluzioni e prescrizioni anche per Cataldo Fiorenza, Gruppo Misto: 2 anni e 2 mesi contro i 3 anni e 8 mesi del primo grado. A costargli caro sono state alcune spese effettuate in supermercati e in farmacia, ma anche per comprare un barbecue. La confisca scende a poco più di 3 mila e 600 euro.
Giulia Adamo, Pdl, gruppo Misto e Udc: ha ottenuto assoluzioni del merito e prescrizioni che azzerano i 3 anni e 6 mesi del primo grado. La confisca è ridotto a poco più di settemila euro. Era difesa dall’avvocato Luigi Cassata.
Rudi Maira, Udc e Pid, è stato assolto da alcuni capi di imputazione mentre per una spesa di 2.000 euro è intervenuta la prescrizione. Era stato condannato a 4 anni e 6 mesi. Era assistito dall’avvocato Oriana Limuti.
Livio Marrocco, Pdl e Futuro e libertà, è l’unico imputato totalmente assolto nel merito. Gli erano stati inflitti 3 anni. Era difeso dagli avvocati David Castagnetta e Giovanni Di Benedetto. Alla fine nel suo caso il capo di imputazione riguardava poco più di tremila euro.
Il via all’inchiesta nel 2014
Sono passati tanti anni dall’inizio dell’inchiesta – era il 2014 – nel frattempo tutti gli imputati non sono più in politica, tranne il senatore Pogliese. Fu la condanna inflitta in primo grado a fare scattare l’iter che portò alle sue dimissioni da sindaco. Pogliese è uno dei maggiorenti del partito di Giorgia Meloni in Sicilia.
La prima scrematura
All’inizio sotto inchiesta finirono più di ottanta, fra onorevoli regionali e impiegati dei gruppi parlamentari. Questi ultimi uscirono i dipendenti su richiesta della stessa Procura della Repubblica. Finirono sotto processo solo i capigruppo in carica dal 2008 al 2012. La prima sentenza sulle “spese pazze” in abbreviato provocò una seconda scrematura. Il giudice per l’udienza preliminare stabilì, infatti, che per potere contestare il reato di peculato dovevano verificarsi due condizioni: “La prima è che vi sia prova del fatto che sono state effettuate da parte del parlamentare regionale delle spese attraverso i contributi erogati dall’Assemblea regionale siciliana in capo a ciascun gruppo parlamentare, mediante l’esibizione della relativa documentazione fiscale, contabile ed extracontabile”.
“La seconda condizione – si leggeva nella motivazione – è che vi sia prova del fatto che quella spesa sostenuta dal parlamentare regionale e comprovata dalla documentazione fiscale acquisita agli atti, sia stata diretta a perseguire un fine non rispondente a quello istituzionale per il quale era stato in precedenza erogato il contributo, essenzialmente legato al funzionamento del gruppo parlamentare che ne è stato il beneficiario”.
Avrebbe dovuto essere il pubblico ministero a dimostrare che davvero quei soldi fossero spesi per fini non istituzionali e non l’imputato a doverli giustificare. Non si poteva ribaltare l’onere della prova. Prova che, secondo l’accusa, sarebbe emersa nel caso dei sei imputati.
Soldi, borse e fumetti
Fra le spese contestate c’erano i soldi per comprare borse pregiate, gioielli, auto. E persino multe, fumetti e pandori come emerse dagli accertamenti dei finanzieri del nucleo Tutela spesa pubblica del Nucleo di polizia economico-finanziaria.
A Pogliese venivano contestate spese per 75 mila euro. Tra queste, 1.200 euro per la “sostituzione di varie serrature e varie maniglie per porte, con saldature varie ed aggiunzioni pezzi di canaletto per tenuta vetri, pulitura con flex nelle parti ossidate con passaggio di pittura antiruggine” nello studio catanese del padre, la permanenza in albergo anche dei familiari e 280 euro per la retta scolastica del figlio. Al vaglio della Corte di appello presieduta da Adriana Piras il peculato ha retto per circa 28 mila euro.
La difesa
Pogliese, come tutti gli altri imputati, ha sostenuto che all’epoca dei fatti non c’era alcun obbligo di rendicontazione. Aggiunse, però, che non aveva speso i soldi del gruppo, ma in realtà si trattava di una cifra che aveva anticipato per pagare contributi previdenziali e stipendi ai dipendenti del gruppo. Insomma, avrebbe riavuto soldi suoi. Il sostituto procuratore generale Carlo Marzella aveva chiesto la conferma di tutte le condanne.