Stravaganze | La diceria delle pietre nella terra di Bufalino - Live Sicilia

Stravaganze | La diceria delle pietre nella terra di Bufalino

Gesualdo Bufalino
Da Il Foglio
di
7 min di lettura

«Ha inizio una decennale revisione». Sta nel dettaglio, il Diavolo, e Dio solo sa quanto possa trovarlo divertente. Sta nel dettaglio, ed è in un dettaglio che si rivela un’essenza.

1971, Comiso, estremo lembo sudorientale di un’isola a tre punte. Una valle ai piedi di una strada tortuosa attorcigliata sui monti Iblei, una manciata appena di case basse, un campanile dedicato a San Biagio. Dietro un uscio, nascosto, un professore. Raffinato per cultura e restìo per carattere, Gesualdo Bufalino – il professore scrittore che verrà scoperto da Leonardo Sciascia e da Elvira Sellerio – della terra di cui fu silenzioso araldo è un emblema perfetto, in animo e stile. Dentro un cassetto della sua scrivania, dimora vivo il manoscritto di Diceria dell’Untore. Ne uscirà spesso, nei successivi dieci anni: ma solo per consentire all’autore di limarlo, e limarlo, e limarlo, perché una volta dato alle stampe – diceva lui – ciò che è scritto muore, non potendo più camminare verso la perfezione. Vivrà così per dieci anni, la Diceria, finché poche righe scritte per accompagnare una raccolta di fotografie d’epoca non tradiranno l’autore come tale, costringendolo a confessare che sì, un romanzo nel cassetto esiste. Consegna, pubblicazione, premio Campiello: il professore, sessantenne, divenne scrittore nel 1981. Dopo una decennale revisione.

Se c’è un modo, e uno solo, per spiegare l’esasperata dovizia barocca di una terra e della forma mentis che la abita, quel modo è questa frase: “ha inizio una decennale revisione”. Seminata, quasi distrattamente, in una cronologia, un bignami della vita di Bufalino, in apertura del compendio delle sue opere pubblicato da Bompiani. L’anima barocca sua e degli Iblei tutti è in questa frase. Distratta, trascurabile. Vera. Perché il diavolo sta nel dettaglio, ma difficilmente in quel dettaglio mente. E rivela il vezzo di uno scrittore, ritroso come la bellezza altera del luogo che gli fu casa, e che come casa lo nascose. Custodendone l’anonimato finché ha potuto, e finché lui ha voluto.

Complessa la sua scrittura, ricercata e musicale: non una virgola cade sulla pagina senza che un cesello abbia prima cercato, e rifinito, e studiato – per ore? Per anni? – il più naturale artificio possibile perché appaia come dono del caso. Timida, quasi scontrosa, la sua natura: più incline all’ombra che alla luce, al silenzio che al rimbombo della fama. Come la sua terra ha fatto con la pietra – né più, né meno – il professore scolpiva dettagli, sulla carta, lui, e con la penna, e li stipava poi in un cassetto. Perché fossero scoperti tardi, magari mai. Perché la bellezza rimanesse intatta, mai sfiorata da occhi immeritevoli, mai toccata da mani straniere. Parole come pietre, scolpite in sbuffi leggeri. Inutili, e per questo perfetti. Friabili come sabbia, come sabbia dorati, eterni non saranno, ma a chi importa: basta il genio per comprenderli. «Bisogna essere intelligenti – scriveva quell’involontario nume degli Iblei – per venire a Ibla. Ci vuole una certa qualità d’animo, il gusto per i tufi silenziosi e ardenti, i vicoli ciechi, le giravolte inutili, le persiane sigillate su uno sguardo nero che spia; ma anche si pretende la passione per le macchinazioni architettoniche, dove la foga delle forme in volo nasconde fino all’ultimo il colpo di scena della prospettiva bugiarda. Ibla è città che recita con due luci. Talvolta da un podio eloquente, più spesso a fior di labbra, in sordina, come si conviene a una terra che indossa il suo barocco con il contegno di una dama antica».

Sta nel dettaglio, il diavolo. Divide il reale come è nel suo nome; e cerca le difficoltà, perché ne ha gusto, e le crea pure : bellissime. Come poetica prosa è difficile, è contorto, il barocco ibleo, perché degli iblei ha la forma mentale. Piano e serafico nell’essenza – calcarea, terrigna, inondata, imbevuta, di un sole perenne – eppure così scontroso, così arduo. Impossibile raggiungerlo, ché mancano le vie. Nascosti tra i vicoli, duomi e cattedrali ridondanti sculture barocche s’aprono allo sguardo in fondo alle valli, o in cima a infinite scale. Come castelli di sabbia, della sabbia hanno il colore e la struttura: ghirigori e volute si alzano eleganti, senza mai esagerare. Assumendo ora il colore dell’oro, ora quello del tramonto. È rosa, la chiesa del Santo Cavaliere di Ibla, nell’attardarsi di giugno. Minaccia un blu scurissimo, nei temporali d’inverno. Ed è oro, nel fuoco dell’estate. Oro che si spreca nei pomeriggi di luglio – adesso, questi.

Punteggia bellezza in forma di luce, il barocco tardo di quest’angolo di Sicilia, disseminando senza ordine né avviso ora le cento chiese di Ibla, e ora lo stupore inatteso di Scicli, che incantò – letteralmente – Elio Vittorini, tanto da indurlo a definire il borgo fiorito dall’incrocio di tre valloni “forse la più bella delle città del mondo”. E poi ancora la cattedrale risorta di Noto, e l’ingegno elegante di Modica, quel “paese in forma di melagrana spaccata”, dove fu felice Bufalino, nella sola estate della sua gioventù, raccontata nel suo Argo il cieco.

Piena e fiera di campanili tanto da contare due patroni per ogni città, e due feste solenni per ciascun patrono, la capricciosa terra del barocco concorda solo sul gusto: univoco, lineare nella ridondanza delle sue curve. Barocco, nel tempo in cui altrove già il decoro volgeva all’opulenza del Rococò. Di necessità virtù, di distruzione ha fatto blasone, il Val di Noto, riedificando in forma di gioiello tutto ciò che dal terremoto grande del 1693 era stato polverizzato (sempre Bufalino, per questo suo esito di pacificatore artistico, ebbe a definire il disastroso sisma “cinicamente provvidenziale”). Non più retaggi arabi, che non restano affatto se non nella lingua, esempio di promiscuità inconsapevole, guazzabuglio felice di ricordi sopiti. Nessuna traccia evidente del passaggio dei romani, né vestigia greche, come invece è nella vicina Siracusa: a Ragusa, e nei suoi dintorni, il tappeto calcareo colorato di sole prende una forma, e una soltanto, avviluppandosi nelle volute eleganti di un barocco, arrivato – ça va sans dire – in ritardo, come tutto. Perché è terra lontana da tutto, ed è terra di calma. E pure alle mode, risponde con i suoi tempi. Sì completa ricostruzione, e rapida, per il tempo, muta il volto del Sud Est, rendendolo un unicum architettonico e stilistico, anche in virtù del gioco di sé che dopo la tragedia occhieggia dai palazzi. Sorridono, irridono, e sbeffeggiano dai balconi di cui sono ornamento, i mascheroni dei Palazzi della nuova borghesia, rispondono quelli dell’antica nobiltà in un gioco di pietra che perdura sulle facciate da secoli.

I baroni degli Iblei non ebbero mai quelli corti sfarzose della capitale, né con tutta probabilità ebbero modo d’invidiarle. Insulari, anche in questo.

Non è una reggia, e a ben vedere non è nemmeno un monumento barocco, l’ottocentesco Castello di Donnafugata. Ma d’altronde, non è nulla di ciò che dice di essere. Non è un castello, ma come tale è noto. Non deve il proprio nome al rapimento di una donna, che secondo la leggenda sarebbe Bianca di Navarra, fuori tempo massimo rispetto alla costruzione della casa di appena tre secoli. È però simbolo di uno spirito – ancora barocco a dispetto dell’Unità che già scendeva lungo lo stivale d’Italia insidiandone il tallone – che di aristocrazia fa possibilità. E, non potendo essere Versailles, né Caserta, si fa divertissement. Il barone Arezzo, che nella sua dimora di città volle un teatro in luogo della cappella d’ordinanza, per la villa di campagna volle eccedere nei giochi. Zampilli d’acqua lungo i viali del giardino, e scherzi paurosi per sorprendere gli ospiti: l’ormai immobile fantoccio meccanico in forma di monaco che saltava addosso agli ignari avventori al tocco di un gradino rimane favola del luogo, così come rimane lusso e vezzo per pochi ormai derubricato a passatempo per turisti il labirinto in muratura, decorato di rose perché le spine impedissero agli ospiti di barare al gioco, liberandosi scavalcando.

Capricci. Di un re di campagna, sospeso in un tempo solo suo. Finezze d’antan, non più eguagliabili. Commoventi d’inservibile bellezza, come il più raffinato dei vizi di Arezzo, che in una terra dove ancora oggi la strada ferrata è ferma all’epoca littoria, volle – tra i primi in Italia, sul finire del 1800 – un treno. Imponendo alla linea un tracciato elicoidale, perché in cambio della concessione del terreno su cui costruirla, la ferrovia passasse dalla sua casina di campagna, disegnando un doppio cerchio in luogo di una linea retta dal colle alla vallata. Un ghirigoro fine a se stesso che imita le linee barocche di chiese e facciate. Ancora oggi, il treno barocco attraversando gli Iblei fa il giro su di sé, ricciolo di ferro tra boccoli di pietra. Chi lo ha preso – non per viaggiare, certo, ma solo per esperire – racconta che le corse sono previste, sì, ma non con frequenza tale da assicurare un viaggo di ritorno che riporti in tempi brevi alla stazione di partenza. Ché tornare, certo, sarebbe necessario. E pertanto, è superfluo.

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