PALERMO – Da vittima del pizzo a presunto favoreggiatore dell’uomo arrestato con l’accusa di essere il reggente del mandamento mafioso di Belmonte Mezzagno.
Il 24 gennaio scorso Giovan Battista Bisconti si presenta in caserma. Sono trascorsi nove giorni dall’arresto di Salvatore Francesco Tumminia, considerato il capomafia del paese in provincia di Palermo, e del suo braccio destro, Giuseppe Benigno.
Bisconti, che fa l’artigiano del marmo, vuole fare dichiarazioni spontanee per spiegare il contenuto di alcune intercettazioni che lo riguardano. Consegna ai militari una lettera in cui scrive che “le parole che ho detto durante le intercettazioni non c’è da tenerli in considerazione, perché stavo male e non ero in grado di capire quello che dicevo e ora voglio dire che le quattro persone che avete arrestato che sono Casella Stefano, Benigno Giuseppe, Tumminia Antonino e Tumminia Francesco Salvatore a me personalmente non mi hanno mai creato problemi e sono delle persone per bene”.
I carabinieri decidono di sentirlo. Gli chiedono se per caso sia stato avvicinato da qualcuno. La risposta è secca: “No, questa cosa l’ho pensata io”. Le persone arrestate le conosce solo perché sono suoi compaesani.
I militari gli fanno ascoltare le sue parole intercettate nel passaggio in cui dice: “… va a domandare, va facendo estorsioni… sono venuti a farla da me”. E lo dice dopo avere pronunciato il cognome “Casella”. Agli investigatori, però, ora spiega di non ricordare “il contesto della conversazione” e “neanche di aver nominato Casella”.
Per avere un quadro completo della vicenda bisogna fare un passo indietro. Due giorni prima dell’arrivo di Bisconti in caserma le microspie piazzata sulla macchina utilizzata da Tumminia fino al suo arresto sono ancora accese.
E viene registrata una conversazione fra la moglie Annamaria Capizzi e la sorella. La donna si sfoga: suo figlio “sta uscendo pazzo” e qualcuno si doveva “vestire di coscienza” e “presentarsi”.
All’indomani dentro la stessa macchina c’è la donna assieme al figlio, Giuseppe Tumminia. Non fanno i nomi, ma parlano di due fratelli “Gianni e Pinotto”, che possono essere rintracciati al cimitero. Al cimitero si trova la bottega del marmo di Bisconti. La donna dice che bisogna prenderli “come due sacchi di patate… gliela scasserei quella testa da malandrino che ha a tutte e due fratelli l’hai capito in quale condizione ci hanno messo…. prendo per le corna e li porto in caserma”. Bisconti ha un fratello che, secondo l’accusa, quando andarono a chiedere il pizzo nel negozio di marmo avrebbe cercato aiuto in Tummina.
E il figlio concorda: “Sì lui proprio ci andasse prima decadono tutte cose per il riesame”. I pubblici ministeri non hanno dubbi: stanno parlando della possibilità che Bisconti scagionasse gli indagati.
Il 24 gennaio Giuseppe Tummina dice alla madre “che oggi dovevano andare là”. E la madre aggiunge: “… se hanno una coscienza dovrebbero fare in quel modo. Gianni e Pinotto”.
Quella stessa mattina Bisconti consegna la lettera ai carabinieri.
Il 30 gennaio le microspie registrano il colloquio in carcere fra Salvatore Francesco Tummina, detenuto, e il figlio Giuseppe. “Ma tu lo capisci che sono qua per niente”, dice il padre. “Appunto già lo sistemammo”, lo rassicura il figlio (il genitore gli strizza l’occhio)… però i miei cugini si sanno comportare bene”. Secondo l’accusa, sarebbe la conferma che Bisconti sarebbe stato indotto ad andare in caserma per aiutare gli indagati e ora la Procura di Palermo lo ha messo sotto accusa per favoreggiamento aggravato. Resta ancora da capire chi materialmente lo convinse a scrivere la lettera.