Quegli equilibri rotti a Palermo | Giudici e pm: tutti contro tutti

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28 Dicembre 2015, 18:37

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PALERMO – Ai più, nelle stanze della Procura della Repubblica, le parole del capo dei pm palermitani sono sembrate di routine. La decisione di applicare il solo obbligo di dimora alla donna libica accusata di istigazione al terrorismo era stata ritenuta da Francesco Lo Voi “del tutto inadeguata alle esigenze cautelari”, tanto da decidere di impugnarla subito al Riesame.

“Routine” appunto, dicono i pubblici ministeri presenti oggi al Palazzo di Giustizia, schierandosi – e non solo per dovere di ufficio – dalla parte del loro capo. Ecco perché non giustificherebbero la risposta piccata di due autorevoli esponenti dei Gip, il presidente Cesare Vincenti e il presidente aggiunto Gioacchino Scaduto, secondo cui le parole di Lo Voi, sono state “avventate e inopportune”. Ecco perché c’è chi riconduce la “questione libica” al tutti contro tutti che a Palermo non si vedeva da anni. Giudici e pm hanno sempre fatto fronte comune. Ora non se le mandano a dire. Prendono carta e penna, come hanno fatto Vincenti e Scaduto, per rendere pubblico ciò che pensano. Altro che dichiarazioni di routine, hanno detto i due giudici, qui si “delegittimano oggettivamente la funzione il ruolo del giudice per le indagini preliminari”.

Da mesi si registrano tensioni fra la Procura e l’ufficio Gip. Quello della donna libica è solo l’ultimo degli episodi. Alle radici dello scontro c’è, con tutta probabilità, la mole di lavoro “ferma” ai Gip e cioè le oltre trecento richieste di arresto avanzata dai pm e il cui esito dipende dai giudici per le indagini preliminari. Che, dal canto loro – e questo è un dato di fatto – sono stati per un lungo periodo sotto organico. In ottobre sono arrivati quattro nuovi giudici per un totale di ventisei. Anzi, ventiquattro visto due sono in uscita: Fabio Licata e Lorenzo Chiaramonte, indagati nel caso Saguto e trasferiti in altre sedi. E qualcuno aveva pure storto il naso di fronte alla scelta di spostarli all’ufficio Gip, come se venisse considerato un “parcheggio” di scarsa importanza.

Le tantissime richieste di arresto sono state bypassate in alcuni casi con dei provvedimenti di fermo disposti dai pubblici ministeri, previsti quando c’è il pericolo di fuga degli indagati o bisogna bloccare un reato in corso. I provvedimenti, in questo caso, solo successivamente passano alla convalida dei Gip che, però, di recente, non hanno accolto le richieste dei colleghi della Procura. E’ accaduto per la ricercatrice libica, Khadiga Shabbi, e per uno scafista. Quest’ultimo, un siriano, quando il Riesame ha accolto il ricorso dei pm, si era già dato alla macchia.

Altro capitolo spinoso: agli inizi di novembre sono stati arrestati presunti appartenenti al clan mafioso di Santa Maria di Gesù. Fra di loro ci sono pure i presunti mandanti ed esecutori dell’omicidio di Mirko Sciacchitano. Il delitto è del 3 ottobre scorso. Sui presunti killer pendeva una richiesta di misura cautelare dal 10 marzo scorso. Il Gip l’ha presa in consegna il 13 ottobre e cioè dopo l’omicidio, e l’ha vistata il 9 novembre.

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I giudici per le indagini – lo hanno ribadito nel corso di una riunione interna all’ufficio – non hanno alcuna intenzione di passare per dei perditempo. Dicono di essere oberati di lavoro visto che oltre ad emettere le misure cautelari devono pure autorizzare montagne di intercettazioni e celebrare decine di processi. Tantissimi imputati, infatti, scelgono il rito abbreviato anche nel tentativo, a volte disperato, di evitare una condanna all’ergastolo visto: il rito alternativo prevede uno sconto di pena.

E siamo ai giorni nostri, al no al fermo della donna libica sospettata di simpatizzare per la Jihad e ad un altro caso da scintille. Gioacchino Scaduto, infatti, ha respinto la richiesta di rito immediato avanzata dai pm per i due cronisti dell’Espresso autori dell’articolo sulla presunta intercettazione fra Rosario Crocetta e il chirurgo plastico Matteo Tutino. Scaduto si è spinto oltre, dando per certa l’esistenza di una frase – non specificando chi l’avrebbe pronunciata – che in qualche modo potrebbe rimandare, anche se in senso strettamente politico, a quella dello scandalo: “La Borsellino va fata fuori come suo padre”. Impossibile, dicono in Procura. Quella frase non esiste. Almeno su questo fronte ne sapremo presto di più con l’avviso di conclusione delle indagini e il deposito degli atti.

Nel frattempo le parole di Vincento e Scaduto restano lì a testimoniare un clima di tensione che, a pensarci bene, potrebbe avere radici più antiche. Un anno fa, quando la magistratura si schierava per la parata dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, l’allora presidente reggente della Corte d’appello, Vito Ivan Marino, disse: “Non si può sottacere che la indubitabile contingente e pericolosissima esposizione a rischio in determinati processi di taluno dei magistrati della requirente con conseguente adozione di dispositivi di protezione mai visti in precedenza, finisca per isolare e scoprire sempre di più i magistrati della giudicante titolari degli stessi processi”.

 

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28 Dicembre 2015, 18:37

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