Un ponte senza lo Stretto - Live Sicilia

Un ponte senza lo Stretto

Ci sono due grandi domande italiane...
LO STRETTO IMMAGINARIO
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Ci sono due grandi domande italiane. Quando la Juventus vincerà di nuovo la Champions League e quando sarà costruito il Ponte sullo Stretto di Messina. Essendo Juventino da quando ero bambino, e un passante o abitante dello Stretto di Messina da quando avevo sei mesi di vita, le due questioni hanno per me un’importanza biografica, prima ancora che sportiva e politica. La questione del quando, secondo me, viene prima del come. Sul come non ci sono alternative: per vincere la Champions League bisogna arrivare in finale ed imporsi sull’avversario; per costruire un ponte bisogna progettarlo, aprire il cantiere e realizzarlo. Il quando, al contrario, non è scontato, perché è l’incrocio di un tempo e un motivo che conduce all’esito. La Juventus vincerà la Champions League quando avrà una squadra all’altezza di vincerla, e il Ponte si farà quando ci sarà un motivo all’altezza di una sua realizzazione. Lasciamo stare la Juventus. 

I motivi, all’altezza della costruzione di un Ponte sullo Stretto, in realtà non sono mai stati individuati, spiegati, e messi a disposizione di una scelta lucida, non emotiva e non ideologica, in un senso e nell’altro. Questo problema, è già presente al principio della vicenda (anni settanta) ed è continuata lungo la traiettoria intrapresa dal progetto. Le responsabilità iniziali non sono dovute a ignoranza o malafede, mentre quelle che si sono poi susseguite, al contrario, sono un intreccio delle due cose. Il principale errore di valutazione iniziale, è aver sopravvalutato le reali capacità implicite, alle due parti geografiche in oggetto (Calabria e Sicilia) di scegliere, di confluire, demograficamente e territorialmente, in un’Area Metropolitana reale, con un solo governo, che permettesse alle due parti di non stare con due piedi potenziali in una sola scarpa territoriale reale.

Errore, ad esempio, che non fu fatto da Ataturk, che nel momento in cui scelse di dare un destino nuovo a Costantinopoli, trasformandola da una città continentale in una bicontinentale, non si affidò alle dinamiche implicite, spontanee, ma spinse verso il cambiamento, con azioni determinate, esplicite, autoritarie. Intenzione già segnalata, dalla decisione di cambiare nome a una città, che non ne aveva uno qualsiasi, ribattezzandola Istanbul. Per capirci: è come se domani decidessimo di cambiare nome a Venezia. 

La politica italiana degli anni settanta, al contrario, dopo aver elaborato il Progetto Ottanta (ultimo reale piano nazionale di sviluppo pluriennale prima dell’attuale PNRR) s’illuse ingenuamente che i normali strumenti della democrazia, avrebbero spinto a rendere esplicito ciò che era implicito nell’Area dello Stretto: la possibilità di adire a una nuova città, con una sostanza demografica e territoriale concorrenziale con quelle del Mediterraneo. Il secondo errore di valutazione, fu immaginare, a quel punto, un’infrastruttura di attraversamento, che invece di avere le dimensioni e le caratteristiche di una strada urbana (ovviamente, come tutte le grandi strade urbane, anche usufruibile da chi attraversa una città) fu immaginata come un’infrastruttura esclusivamente trasportistica, tanto da prevedere il passaggio non solo di veicoli su gomma, ma anche su rotaia. Le principali risposte tecniche e progettuali al primo e unico concorso internazionale, erano quindi progetti in cui la questione ferrovia, non soltanto, dimensionava il ponte secondo misure sino a quel tempo mai viste e quasi inaudite, ma apriva anche nuovi fronti infrastrutturali. Fronti non meno importanti, perché sono quelli che servono a far salire e poi scendere i treni che corrono su una linea posta al livello del mare, sia in Calabria e sia in Sicilia, sull’impalcato. Da un Ponte, quindi, si era passati, senza nemmeno volerlo realmente, a un ridisegno infrastrutturale che da Gioia Tauro sino a oltre Messina, avrebbe interessato molto di più di uno specchio d’acqua che separa la Sicilia dalla Calabria. 

Una volta finito il concorso e riordinate le idee, per dare seguito alla volontà di realizzare il Ponte, si tenne in piedi la Società Stretto di Messina, anche se ormai era chiaro che il topolino aveva partorito una montagna difficilmente scalabile. Da quel momento in poi, la questione del Ponte sullo Stretto, ricorre sempre, in un modo o in un altro, o all’inizio di una legislatura o alla fine. Il solo tentativo, tra il reale e il surreale, fu quello portato avanti da uno dei governi Berlusconi che, dopo aver commissionato un imponente progetto fintamente esecutivo, inaugurò il cantiere con un’opera provvisionale, che al momento è la sola cosa esistente.

Colpa di Berlusconi? A quel tempo, responsabilità precise si riscontravano soprattutto in sede Europea che, senza comprendere di cosa si stava parlando, inserì questa infrastruttura nei famosi corridoi di trasporto europei, equiparandolo ad altre opere (compreso l’oramai mitico tunnel della Val di Susa) e sostenendolo con analisi economiche e sociali direttamente legate alla questione dei trasporti: della mobilità delle merci e dei cittadini. Mentre negli anni settanta, questo errore fu dovuto alla difficoltà d’immaginare le tendenze del futuro (errore possibile in ogni progetto) in questo secondo caso dipese da un misto di miopia, bassi interessi, scarsa capacità della politica nazionale ed europea che, infatti, in questi giorni, sulla questione energetica, paga errori analoghi fatti esattamente in quel tempo. 

Mentre s’ipotizzava una realtà immaginata, infatti, il sistema dei trasporti nel Mediterraneo risolveva i problemi dentro una realtà esistente, e ridisegnava la maniera di muovere le merci via mare, escludendo per scelta e non per necessità la strada ferrata, perché delle navi progettate a misura del problema e un nuovo sistema di consegna e ricezione delle merci nei Porti, sono più economiche e funzionali.

Mentre la Società dello Stretto pagava consulenti che partorivano studi sulla necessità del Ponte per le merci, i produttori, gli spedizionieri e gli armatori, risolvevano il problema con navi che spostando una massa critica di camion e container senza paragoni con il treno, rendevano la discussione obsoleta e senza senso reale. La realtà, è che più ci si allontana dall’area dello Stretto, più diventa residuale, in termini economici, la velocità con cui si attraversa, mentre è rilevante, il costo totale dell’intero percorso che devono fare le merci, ad esempio, dalla Sicilia a Genova, a Civitavecchia, a Napoli. 

Il motivo delle merci, della mobilità nazionale ed europea, della saldatura continentale dell’isola come condizione di sviluppo meridionale e nazionale, non sono motivi commisurati all’opera da realizzare, perché per quei motivi l’Attraversamento Stabile è secondario. 

Ancora oggi, al contrario, esiste un solo e unico motivo per costruire una strada sospesa che passi sull’acqua dello Stretto: la realizzazione di una nuova città a cavallo delle due sponde, che si ponga l’obiettivo di assumere un ruolo entro la fine del Secolo, che la ponga sullo stesso livello di quelle che affacciano sui lati Est e Sud del Mediterraneo.

Reggio Calabria e Messina, devono convincersi, che il restare ambedue con due piedi in una sola scarpa territoriale, le condanna a un processo di marginalizzazione e perifericità, che in fondo vivono, distintamente, iniziato lentamente, ma inesorabilmente, da diversi secoli ma ancora con margini d’irrilevanza da raggiungere. Reggio e Messina, la Sicilia e la Calabria, non hanno bisogno di un ponte. Hanno bisogno di una grande impresa urbana, di lungo periodo, in rapporto al quale, a quel punto, ogni cosa che serve si dovrà fare, compreso un ponte, non per il valore in sé, ma per quello del progetto sociale e politico prescelto.  


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