Le cronache della piccola Palermo | "Così affronto ogni giorno la morte" - Live Sicilia

Le cronache della piccola Palermo | “Così affronto ogni giorno la morte”

E voi conoscete il mistero dell'uomo che governa su una distesa di croci?

Il reportage
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PALERMO-I morti so assai”, diceva Eduardo De Filippo. E un po’ gli somiglia, per aderenza scenica al ruolo, Franco Marchese, direttore del cimitero dei Rotoli, oppure – se preferite – sindaco della nostra domestica Spoon River. I morti sono tanti e bisogna anche sperimentare tecniche di sopportazione per le angherie dei vivi, quando sei al vertice di un camposanto.

C’è una piccola Palermo oltre i cancelli e i muri, abitata da amministrati silenti che offrono ombra e consolazione. Non sarebbe stato giusto posporre oltre una chiacchierata col suo primo cittadino. Perché? Perché un uomo che vive la morte, che inventa il suo personalissimo teatro sulla porta del confine estremo, deve avere qualcosa di inestimabile da raccontare. Noi trasciniamo le nostre rappresentazioni nel ventre della grande e caotica Palermo. Lui governa una distesa di croci, dentro un vento che si increspa appena, smosso dai bisbigli di chi viene qui a cercare un abbraccio impossibile.

Più che teatro, cinematografo, in effetti. Ogni sepoltura è un proiettore di ricordi e tenerezze inghiottite dal buio. Con i nostri morti noi parliamo, ne immaginiamo il passo tra i viali alberati, li rivediamo – trasparenti e gioiosi – in un Paradiso che lambisce la nostra suggestione. Il cimitero è la residenza dei trapassati, ma siamo stati noi – noi che respiriamo un po’ spaventati tra soprassalti e accortezza – ad agghindarlo col desiderio di carezze.

Dottore Marchese, visto che siamo in tema professionale, cos’è per lei la morte? Ci pensa un attimo su, con un velo commosso negli occhi marroni e un mezzo sorriso tra i baffi brizzolati. Sospira in profondità. Risponde, infine: “Il riposo di una vita vissuta fino in fondo, a parte la sofferenza e la speranza di ritrovarsi nell’eternità con i compagni più cari e amati con cui abbiamo camminato insieme”. Che meraviglia questo aldilà di canditi e tavole familiari, quadrettate di bianco e di rosso. Con i dolci di Natale, la nonna che affetta il pandoro di là in cucina, un profumo, nell’aria, di vecchie cose di pessimo gusto e la vicinanza di volti non più nebbiosi.

Non parla tanto per parlare, il sindaco del camposanto, si narra a ragion veduta. Mima un gesto d’amore con la mano. “Di là c’è sepolta mia moglie Paola. E’ andata via sedici anni fa, lasciandomi solo con figli piccoli. Era un’insegnante e una donna dalla risata contagiosa. Mi manca molto”. All’anulare del SinnacoFranco – perché non chiamarlo affettuosamente così – brillano due fedi, la sua e quella della compagna di viaggio. Ora è lui a ridere – il direttore -, il velo si scioglie e cede il posto alla leggerezza.

Ogni camposanto ha i suoi matti, proprio come a Spoon River c’era lo strano del villaggio (“La mia lingua non riusciva a pronunciare ciò che si agitava dentro me e mi presero per matto”), perché non svelarne le gesta? “C’era un signore assai ben vestito che è arrivato qua l’altra mattina. Una persona distinta che cercava suo padre. Abbiamo capito che aveva qualche problema nel momento in cui ha detto che suo papà era già morto due volte”. E l’umore allegro che accompagna il racconto – come se Paola fosse qui, dietro un caffè; nessuno separa le donne e gli uomini che si scelgono e finiscono per specchiarsi ognuno nel riflesso dell’altro – non appartiene al cinismo di un mestierante dei sepolcri; piuttosto è la fratellanza di chi, sapendo benissimo cosa sia la morte, ha imparato a non disprezzare le curve dell’esistenza.

“Sa – continua Franco – un’altra volta è venuta qui una signora che si preoccupava della sua tomba, come se dopo il trapasso ci fosse un domani, un futuro, o un’accumulazione possibile. Eppure torniamo polvere, io lo so”. E’ la roba funeraria su cui certi animi, evidentemente forniti di eterno senso pratico, scommettono.

E c’è l’estenuante contesa con coloro che sono rimasti temporaneamente dall’altro lato dello Stige, eppure piombano qui col piglio di chi non distingue tra la grande Palermo che rumina pazzia oltre il cancello e la piccola cittadina protetta dalla quiete. Sospira di nuovo il direttore: “Il punto è che ognuno vorrebbe entrare con la macchina e non si può. Un conflitto a fuoco continuo. Un visitatore, di recente, ha cercato di buttare giù la barriera, usando il paraurti a mo’ di ariete. Entrando, ho notato dei petali sparsi a terra. Mi sono arrabbiato: ‘volete dare un colpo di ramazza?’. Il custode si è avvicinato contrito: mi scusi, dottore, è che cinque minuti fa una donna mi ha tirato un mazzo di fiori in faccia”.

Ed è uno scivolare nella deriva di piccole cose dal gusto agrodolce. Fuori soffia un venticello d’estate. Come Paola, sorridono i fiori sulle lastre di marmo, gli orsacchiotti cotti dal sole e bagnati dalla pioggia sui loculi di bambini che avrebbero, oggi, quarant’anni; tra i viali incedono vecchiette dai capelli candidi, a crocchia, e addosso una talpa che scava nella fibra più interna per la dipartita di un figlio. Nella sua cappella ornata di rose rosse, riposa Francesca Morvillo, sposa di Giovanni Falcone.

Franco Marchese scorda i matti e va dritto al centro della sua missione: “Questo è un camposanto. Non è nemmeno un ospedale dove si alternano dolore e speranza, qui c’è solo la sofferenza, la durezza del primo impatto con l’abbandono. Non mi piacciono gli operai che urlano, né chi riesce a sgattaiolare con un mezzo e si piazza sulla strada, per cui perfino il carro funebre deve rallentare e fermarsi. Non mi piace chi corre col motore smarmittato e fa tremare le tombe”. Insomma, non gli piacciono i palermitani che si comportano qua come di là, che irrompono nella compita sintassi di Spoon River.

E certo, le piccole cose del confine da aggiustare. Il forno crematorio che è stato finalmente riparato, la cisterna da sistemare, l’erba da tagliare, i campi di inumazione da sorvegliare, il pubblico da ammansire…. “Andrò in pensione tra poco meno di un mese, al mio successore regalo solo un piccolo suggerimento: si doti di un fegato robusto e di ottimi reni. Gli serviranno. Sono convinto di avere il peso di una goccia in un oceano, però posso sentirmi felice. Magari dovrei scrivere un libro”. Magari, sì.

Lo sguardo cerca Paola, la moglie perduta sedici anni fa: “E’ più in là – ancora un gesto amorevole della mano -. Ogni giorno passo da lei. Vado e trovarla e le parlo come se potesse ascoltarmi. Le dico tutto”. E’ la grandezza del cinematografo che proietta la sua ansia fiammante del ricongiungersi. Ed è forse il vento che risponde alle domande di chi cerca un abbraccio. Una sulle altre, su tutte le altre: dove sei, adesso, tu?

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