Il tesoro di Ciancio, accusa e difesa Cassazione: attesa per la decisione

‘Tesoro’ Ciancio, accusa e difesa | Cassazione, attesa la decisione

La Suprema Corte dovrà decidere sul ricorso della Procura generale che ha impugnato il decreto di dissequestro dei beni.
MISURE DI PREVENZIONE
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CATANIA – In apnea. Un giorno con il fiato sospeso. Oggi si svolge l’udienza davanti alla Suprema Corte dopo la revoca della Corte d’Appello del decreto di confisca del patrimonio societario, tra cui il quotidiano La Sicilia e le emittenti tv, dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo. Insomma l’ultimo scoglio nel processo sulle misure di prevenzione.

L’attesa per la decisione

La Cassazione è chiamata a decidere sul ricorso presentato dalla Procura Generale di Catania. In oppure out? Annullamento o rigetto? No, ci potrebbe essere anche un annullamento con rinvio che riporterebbe gli atti a piazza Verga per l’apertura di un nuovo procedimento da celebrare davanti ad un altra sezione di Corte d’Appello. Insomma, sono tre le strade. E l’ultima sposterebbe il ‘The end’ ancora di diversi mesi. 

I 5 motivi del ricorso della Pg

Il ricorso della Pg si racchiude in 5 motivi che “giustificano la richiesta di annullamento del decreto – si legge nelle conclusioni – perché il decreto applica erroneamente la legge penale nella valutazione degli indizi di appartenenza all’associazione mafiosa e delle sperequazione tra risorse lecite ed illecite”. E aggiunge: “La motivazione del decreto è apparente e/o inesistente nella valutazione di alcuni elementi probatori essenziali”.

La difesa, in una lunga memoria, chiede alla Suprema Corte di “dichiarare inammissibile o infondato” il ricorso. 

La figura dell’imprenditore amico e la sentenza dei Cavalieri

I pg Antonino Fanara (applicato in questo processo) e Miriam Cantone nel primo motivo si soffermano nella “teoria innovativa” della Corte d’Appello sulla “figura dell’imprenditore “amico” dell’associazione mafiosa, ossia un imprenditore che è in stretti e costanti rapporti, anche imprenditoriali, con l’associazione mafiosa senza essere né “vittima” né “colluso”.

Nelle motivazioni si definisce quella “zona intermedia, grigia di contiguità” che però non arriva a “trasformarsi” in “collusione”. Per i magistrati queste affermazioni fanno precipitare la storia indietro di trent’anni, alla sentenza Russo sui cosiddetti Cavalieri del Lavoro. Un provvedimento “citato e criticato”, in cui “il giudice istruttore ipotizzava che tra importanti imprenditori e mafia vi era una specie di contratto assicurativo”.

In conclusione quella “pronuncia raggiungeva il risultato di negare ogni rilevanza penale al comportanti di tutti quegli imprenditori, come i cavalieri del lavoro, che erano “protetti”, erano “amici” e avevano rapporti stretti e sinallagmatici con cosa nostra catanese”.

Il ricorso della Procura Generale

Per la pg, dunque, la Corte d’Appello “sviluppa un percorso argomentativo che è nuovamente finalizzato a escludere dall’ambito dell’illecito penale gli imprenditori che “sono imprenditori amici”. La Corte d’Appello nel decreto traccia un percorso: l’editore catanese da “vittima” sarebbe diventato “amico” di Cosa nostra.

“Una singolare teoria” – l’ha definiscono i magistrati nel ricorso – “certamente errata in quanto il fatto che Ciancio pagasse somme di denaro all’associazione mafiosa non sono non emerge da nessuna delle fonti di prova” ma “non trova riscontro nemmeno nelle argomentazioni difensive”. Un assunto di partenza (errato per la pg) che “consente alla Corte di compiere ulteriori passaggi” ma “del tutto avulsi dalle emergenze probatorie”.

Nel decreto sono richiamate diverse sentenze della Cassazione ma che per la pg sono una mera “copertura”. Secondo Fanara e Cantone “non è revocabile in dubbio che la figura dell’imprenditore amico così come elaborata dalla stessa Corte non può che rientrare nella figura dell’imprenditore contiguo”.

La pg, utilizzando anche solo gli episodi ritenuti provati dalla Corte d’Appello, rimarca che Ciancio “era protetto dalla stessa sia negli interessi patrimoniali (recupero refurtiva della villa) che nell’interesse a preservare reputazione e libertà (falso attentato alla villa nel 1980)” e inoltre la condotta (al contrario di quanto asserito nel decreto d’appello) di “Ciancio era funzionale agli scopi associativi in quanto l’organizzazione mafiosa poteva infiltrarsi negli affari di Ciancio (i centri commerciali)”. E, dunque, per la Procura Generale avrebbe rafforzato “l’associazione mafiosa per il solo fatto della vicinanza ad essa”. 

La memoria della difesa

L’avvocato Carmelo Peluso, nella sua lunga memoria, ritiene in questo punto “il ricorso da rigettare in quanto errato nel presupposto teorico e destituito di fondamento”. Per la difesa  la citazione della sentenza è “inutile” in quanto “superata da copiosa giurisprudenza di legittimità”. “Come correttamente esposto – scrive il penalista catanese – nella motivazione del decreto impugnato, la Corte di Cassazione ha più volte ricordato all’interprete che il concetto di “appartenenza” all’associazione mafiosa deve risultare “funzionale” agli interessi della struttura criminale ritenendo indispensabile un contributo fattivo”.

E dunque, dal concetto di “appartenenza” si devono escludere “approcci interpretativi” su “contiguità ideologica”, comunanza di “cultura mafiosa” o riconosciuta “frequentazione”. Per Peluso dunque “una ingiustificata interpretazione estensiva sarebbe non solo di per sé illegittima, ma foriera di una inaccettabile esposizione del sistema”.

Nella memoria, Peluso inoltre rimarca che “il risultato della minzione e attenta analisi” svolta dalla Corte d’Appello “è stato la impossibilità di rinvenire anche un solo episodio in cui Mario Ciancio abbia dato un contributo fattivo e funzionale alla mafia”.

Sulla figura di “imprenditore amico”, il difensore scrive che “è chiaramente sinonimo di quel rapporto di cordialità/vicinanza/contiguità che occupa la zona grigia intermedia tra l’imprenditore “vittima” e l’imprenditore “colluso” tracciata dalla giurisprudenza di legittimità”. “Le doglianze del ricorrente – argomenta Peluso – si scontrano con un consolidato orientamento della Corte di Cassazione, per cui la mera “vicinanza” non può essere qualificata un contributo funzionale”. 

Il quantum probatorio. Pg e difesa

La Procura Generale, nel secondo motivo concentrato “sul quantum probatorio”, sottolinea come “per la misura di prevenzione è sufficente che gli indizi dimostrino anche la sola probabili che il prevenuto sia un appartenente all’associazione o abbia apportato un consapevole contributo alla stessa”.

I due magistrati ritengono che “tutto questo” sia “stato ignorato dalla Corte d’Appello” che “non solo ha omesso di motivare in ordine alla valenza di numerosi e rilevanti fonti di prova, ma ha altresì atomizzato i vari episodi senza analizzarli nel loro complesso”. E aggiunge che “il giudizio in ordine all’assenza di pericolosità del proposto è stato formulato in violazione di norme processuali e dei più consolidati principi di diritto in tema di prova indiziaria”.

Insomma, “la Corte d’Appello – secondo i due sostituti pg – ha valutato le fonti di prova senza considerare che in sede di prevenzione tale analisi va fatta con dei criteri diversi da quelli del processo di cognizione e, altresì, commettendo l’ulteriore errore di atomizzare la valutazione delle singole fonti di prova”. 

L’avvocato Carmelo Peluso, dal canto suo, rimarca che “la legge vigente pretende un giudizio ancora al fatto e non fondato sul mero sospetto”. “Il decreto – evidenzia la difesa di Ciancio – è sorretto da un apparato argomentativo corretto e correlato alle risultanze in atti, le quali sono state apprezzata e valutate nel pieno rispetto dei principi normativi”. 

Pg: “Motivazione apparente”

Nel terzo punto i due sostituti pg ritengono che la “motivazione del decreto presenti difetti tali da renderla meramente apparente, e quindi, inesistente, sia perché omette del tutto di confrontarsi con elementi potenzialmente decisivi sia perché vizi così radicali da rendere l’apparato argomentativi privo dei requisiti minimi di coerenza, competenza e ragionevolezza”. 

Difesa: “Motivazione coerente”

Per la difesa, invece, “il provvedimento impugnato non appare affetto da violazione di legge”. E argomenta: “La motivazione del decreto impugnato risulta coerente con le emergenze processuali e non è riconducibile né all’area semantica della motivazione “assente”, né a quella della motivazione “apparente”. 

La sperequazione

Negli ultimi due motivi del ricorso della Procura Generale si condensa la parte relativa “valutazione della sproporzione tra le disponibilità lecite e gli investimenti effettuati anno per anno”. Va premesso che il Tribunale di primo grado ha retrodatato l’analisi della contabilità, rispetto alla consulenza del pm e di Ciancio, agli anni 1974 e 1975. Sul punto la difesa ha prodotto documentazione bancaria relativa al 1971. La Pg alla luce dei nuovi documenti ha chiesto di disporre una “perizia contabile” e di produrre una integrazione della consulenza contabile. Entrambe le richieste sono state rigettate. Fanara e Cantone evidenziano come il “diniego della consulenza contabile, a fronte della produzione documentale della difesa, è certamente illegittimo”. Infine, il due sostituti pg valutano come “violazione” l’utilizzo “ai fini della determinazione del reddito del risparmio accumulato negli anni precedenti, ossia la cosiddetta capitalizzazione”.

Sulla consulenza contabile l’avvocato Peluso osserva nella sua memoria che “nel procedimento di prevenzione non è ammissibile il ricorso per mancata assunzione di una prova decisiva”. In merito alla “capitalizzazione” invece la difesa invoca la giurisprudenza della Corte di Cassazione in cui “sono stati precisati contatti chiari che conducono all’affermazione del principio di diritto secondo cui è possibile attingere al risparmio per giustificare gli incrementi patrimoniali”. 

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