PALERMO – È la storia di un irredimibile di Cosa Nostra quella tracciata nella motivazione della sentenza di condanna di Giuseppe Costa. Dovrà scontare dodici anni di carcere per non avere smesso di essere ciò che è sempre stato, un mafioso.
Non c’è prova, scrive il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo Cristina Lo Bue, della “dissociazione di Costa dall’associazione mafiosa, né durante la detenzione, né in seguito alla sua scarcerazione”.
Il 3 febbraio 2017 ha finito di scontare la condanna a 25 anni di carcere (a cui ne sono stati detratti 5 per la buona condotta). A fine dicembre 2020 è stato di nuovo arrestato. Secondo il giudice, che ha accolto la ricostruzione del procuratore aggiunto Paolo Guido e del sostituto Gianluca De Leo, con Costa è fallito l’obiettivo rieducativo del carcere.
Non ha ripensato, per dissociarsene, all’orrore a cui ha contributo. E cioè alla prigionia del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del collaboratore di giustizia Santino, segregato per 779 giorni e infine strangolato, prima che il suo corpo venisse sciolto nell’acido su ordine di Giovanni Brusca.
“Ti portiamo da tuo padre”, dissero a Giuseppe raggiunto in un maneggio il 23 novembre 1993. L’11 gennaio del 1996 il tragico epilogo. Enzo Salvatore Brusca, fratello di Giovanni, lo teneva per le braccia, Giuseppe Monticciolo per le gambe, Vincenzo Chiodo lo strangolò.
Fu lo zio della moglie di Costa, Vito Mazzara, a prendere accordi con Matteo Messina Denaro e Giovanni Brusca. Costa mise a disposizione la sua casa nella frazione di Purgatorio come luogo di prigionia del bambino. Il piccolo vi arrivò incappucciato, dentro il portabagagli e rinchiuso nella cella che Costa aveva costruito con le sue mani.
All’indomani della scarcerazione e alla soglia dei 60 anni Costa avrebbe cercato di tornare a fare valere il suo peso mafioso. Si sarebbe messo d’accordo con Francesco e Pietro Virga, figli di Vincenzo, storico luogotenente trapanese di Matteo Messina Denaro condannato all’ergastolo per l’omicidio di Mauro Rostagno.
Avrebbe sfruttato un legame mai interrotto. I Virga lo hanno sostenuto economicamente durante la lunga detenzione. Attraverso il fidato Paolo Magro Costa Costa comunicava con i fratelli Virga. Non pronunciava il loro vero nome. Li chiamava “Gerardo” e “Cinnego”.
Una volta fuori Costa ha attivato la stessa catena di solidarietà di cui ha beneficiato con la moglie di Vito Mazzara, ergastolano a Parma. Con Virga discuteva di affari, lavori edili a Favignana, raccolta di inerti, gestione di appalti e speculazioni immobiliari.
“La rinnovata adesione a Cosa nostra nel tempo, durante e dopo la carcerazione – scrive il giudice – nonostante la dura condanna inflitta, il tempo trascorso dall’atroce epilogo del sequestro Di Matteo, appare sintomatica di una tendenza a delinquere dell’imputato che ha scelto di improntare la sua vita, lontano dai binari della legalità, rinnovando nel tempo la sua adesione a Cosa Nostra”.