Ferragosto. Tre uomini sotto un portico. Le scuderie del palazzo reale di Ficuzza, voluto da Ferdinando IV di Borbone, erano ormai dimore di villeggianti all’ombra di Rocca Busambra. Il tenente colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il “vecchio” cronista di giudiziaria Nicola Volpes e chi vi scrive trascorrevano il tempo dell’amicizia, del racconto, delle gazzose.
Attorno, il solito mondo. E una estranea Fiat 127 dal colore verde fuori serie, parcheggiata da ore. Brutta. Pensai: se sparano a Russo, sarà più opportuno che io mi butti di fianco o all’indietro? Pensiero stupido e indegno, commentai fra me. Che c’entra Ferragosto con la morte in vacanza? Ma anche Russo l’aveva notata. E annotata su un pacchetto di MS che per lui durava giorni. “Ci vediamo il 20 agosto alle 22 – mi disse al congedo – domattina vado a Palermo per qualche giorno, ma al rientro spero di avere buone notizie”. Stavamo, infatti, sognando insieme un progetto che facesse di Ficuzza un luogo più accogliente: un piccolo albergo, una pista sintetica per sciare d’estate. Sogni, utili a passare il tempo e possibili soltanto a chi, come noi due, non aveva un quattrino da investire.
Nel tardo pomeriggio del 20 agosto fui chiamato da un mio cugino che mi comunicava che il padre ere entrato in coma per via del solito cancro di famiglia. Andai dalla moglie di Russo, la signora Mercedes, e le chiesi di scusarmi con il marito per la mia assenza serale. A Palermo, rientrato a casa dopo l’ultima carezza a mio zio, accesi la tv per il tg della notte. Ficuzza: ucciso poco dopo le 22 il colonnello Giuseppe Russo. Passeggiava con un altro villeggiante, il professor Filippo Costa, assassinato anche lui.
Sono passati, ad oggi, 35 anni e continuo a sentire tutto il riserbo per le mie emozioni di quella notte. Il giorno dopo ero di buonora alla Caserma Carini. Volti disfatti, silenziosi, feriti, rabbiosi. Ero lì perché l’assassinio di Giuseppe Russo aveva dato un senso diverso ad alcune altre “difformità” accadute nelle ore precedenti al delitto ed io avevo il dovere, da amico e da fortunato sopravvissuto, di dare una mano. Parlai con il maggiore Antonio Subranni, il vice di Russo, e questi mi affidò al maresciallo Provenzano, icona investigativa della Carini e braccio destro di Russo. Con lui tornammo a Ficuzza, a cercare “quel” pacchetto di MS su cui il colonnello aveva annotato la targa della 127 verde.
Tra le lacrime, la donna delle pulizie di casa Russo ci disse che era passato da poco l’autocompattatore dei rifiuti… Rientrammo in città. Quale concessionario aveva venduto quella 127 dal colore fuori serie? E a chi? Dopo ore senza risultato, trovammo. Chissà, forse sarebbe stata una pista utile. Provenzano trasse dalla tasca la penna per trascrivere il numero del pantone da me riconosciuto nella mazzetta dei colori del concessionario. E quella penna fu tra noi la prima occasione di infantile sorriso: era verde, di quel verde così tanto cercato.
Rientrati in caserma incontrai nuovamente Subranni e a lui affidai gli altri miei pensieri sui fatti minimi, ma forse non più, che avevano preceduto i due omicidi. Non ebbi più notizie, se non lo strano caso di alcuni innocenti condannati per quei delitti all’ergastolo e dopo venti anni assolti con le scuse dello Stato. I veri colpevoli, poi condannati, erano Bagarella, Brusca…M’è rimasto il rammarico d’avere mancato in qualcosa. O forse il dubbio che qualcuno abbia mancato in qualcosa. Di certo non ho pagato il mio debito con la fortuna.